URVASHI e PURURAVAS:

UN APPROFONDIMENTO SUL
VERO VALORE DELLA SENSUALITÀ

a cura di Tommaso Iorco
(autore tutelato S.I.A.E.)

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Mettendo per il momento da parte le ragioni squisitamente artistiche (poetiche e teatrali) che costituiscono il principale movente ispiratore della pubblicazione di questo capolavoro, una delle motivazioni che mi hanno spinto ad affrontare la lunga e complessa traduzione del testo (compresa l’introduzione impareggiabile di Sri Aurobindo, che per me costituisce un tutt’uno inscindibile con il dettato drammaturgico di Kalidàsa) è certamente l’elemento di stimolo implicitamente contenuto nella vicenda simbolico-amorosa tra la ninfa Urvàshi e il re Purùravas, che permette di effettuare un inusuale (e quanto mai necessario) approfondimento su un tema complesso e altamente suscettibile di fraintendimenti quale quello della sensualità.

Il primo e più grossolano travisamento porta a confondere, nella mentalità popolare, sensualità e sessualità. L’argomento, quindi, non può essere in alcun modo trascurato, proprio a causa delle notevoli implicazioni pratiche contenute.

Questo capolavoro poetico di Kalidasa trabocca della più raffinata e intensa carica di sensualità, e le sapientissime pagine introduttive di Sri Aurobindo spalancano, come sempre, nuovi orizzonti e fondamentali spunti di riflessione sull’argomento, trascendendo i già ampi confini della critica poetica.

Cominciamo a mettere in rilievo il fatto che i due lemmi — ‘sensualità’ e ‘sessualità’ — hanno origini etimologiche ben distinte.
Sessualità deriva dal latino “sectere” o “secare”, ovvero ‘dividere’, ‘separare’; il riferimento è, evidentemente, in relazione alla distinzione tra i generi maschile e femminile, e alla conseguente funzione svolta dal rapporto sessuale: la riproduzione della specie.
Sensualità, invece, ha le sue radici etimologiche nel latino “sensus”, inteso come percezione degli stimoli da parte degli organi sensoriali preposti; è qualcosa di assai più ampio della mera sessualità e mira a traiettorie talmente elevate da arrivare a sfiorare le soglie del sovrasensibile e del sublime.

La sessualità, in estrema sintesi, è finalizzata alla procreazione e possiede in aggiunta evidenti elementi di dominio e di conquista; infatti, se vogliamo considerare la sessualità anche al di fuori delle sue finalità strettamente riproduttive (nella prassi umana ordinaria questa separazione è finora fortemente sentita e pertanto non possiamo ignorarla), notiamo come essa implichi forti elementi di dominio, di conquista e di affermazione dell’ego. L’amore, che è — nella sua più pura essenza — un potere unitivo recante in sé l’affermazione positiva e gioiosa dell’unità dell’intero esistente, nelle sue manifestazioni meno evolute si esprime nel bisogno di fagocitare l’altro: non avendo ancora sviluppato la capacità di trascendere la personalità-di-facciata e di ampliare la propria coscienza in modo da includere tutto in essa, si tende inconsciamente a voler annettere il mondo circostante (o, per lo meno, quanto alla percezione egoica risulta maggiormente gradito) mediante il desiderio di divorarlo. Come è stato fatto argutamente notare, nella tigre che ingurgita avidamente la propria preda esiste già, a livello istintivo, questo bisogno di assorbire l’altro in sé. Ed è significativo che, di fatto, noi utilizziamo nella vita ordinaria espressioni che accostano l’amore a questo impulso fagocitario — quante volte, per esempio, abbiamo sentito un essere umano innamorato dire al proprio partner: “ti divorerei di baci”; oppure, quando i genitori stringono fra le braccia il proprio neonato e, baciandolo con una certa foga, dicono: “me lo mangerei”! La stessa ostinazione umana che spinge a nutrirsi prevalentemente di carne animale (quando ormai la medicina si è attestata a netto favore del vegetarianesimo) va in questa stessa direzione — è una variazione inconscia dell’antica scempiaggine che contraddistingueva le tendenze al cannibalismo nell’uomo primitivo, convinto di assorbire in sé la forza del nemico valoroso mangiandone il cuore o il fegato.

La sensualità ha invece caratteristiche diametralmente opposte: è tesa a stabilire compatibilità, confidenza e fiducia reciproca. E, dato che la sensualità, per sua stessa natura, rende disponibili, aperti, pronti e capaci di accogliere l’altro con un atto di rara apertura (che talvolta si esplica, al suo massimo grado, in una messa a nudo in cui si lasciano cadere le barriere difensive che l’essere umano pone fra sé e il mondo esterno), da parte dell’uomo ‘civilizzato’ essa è stata annessa al corteggiamento amoroso come uno tra gli strumenti più efficaci nel favorire (e raffinare al tempo stesso) la sfera sessuale; tuttavia, è di fondamentale importanza tenere ben presente che, in realtà, la sensualità ha un’esistenza autonoma e possiede un suo valore del tutto distinto e indipendente dalla sessualità. Il confinare la sensualità unicamente alla sfera preparatoria dell’atto sessuale, tende a svuotare la sensualità del suo più completo e autentico valore per l'individuo e, per diretta conseguenza, a svilire gli stessi rapporti interpersonali. È come se, per fare un esempio, noi ci ostinassimo a credere che un coltello debba essere utilizzato per un solo scopo — per ferire, poniamo — e volessimo negare qualunque altro suo utilizzo, per giunta qualitativamente superiore! O, per fare un esempio ancora più calzante, è come se ci ostinassimo a ritenere che il lavoro debba essere finalizzato unicamente all’ottenimento di un guadagno economico e all’acquisto di beni, anziché vederlo come uno strumento creativo volto alla realizzazione e all’espressione personale dell’individuo e della propria unicità. Non vogliamo allargare troppo il tema, ma, a tal proposito, sarà facile per il lettore arguto notare come questo triviale atteggiamento da “filisteo economico” (l’espressione è presa a prestito dallo stesso Sri Aurobindo) abbia il sopravvento nel moderno assetto mondiale che, non a caso, è lacerato da una profonda crisi... È lo stesso atteggiamento di becera ottusità che vorrebbe volgarizzare la creatività, ritenendo che debba essere posta al servizio della legge di mercato anziché della bellezza e della creazione artistica. Ed è questo medesimo spietato atteggiamento mercantile e antropocentrico a presumere erroneamente che gli animali esistano solo per il soddisfacimento dei bisogni umani e che, pertanto, possono essere impunemente fatti vivere in stalle-lagher, ingozzati a forza e costretti a patire una non-vita in gabbia, per poi essere barbaramente macellati.

Mère e Sri Aurobindo — è bene sottolinearlo — distinguono sessualità e sensualità in modo inequivocabile: pur avendo sempre avuto cura nel riconoscere la sessualità nell’attuale assetto sociale dell’umanità, laddove cioè i rapporti interpersonali sono ancora strutturati principalmente sull’ego (e sul confronto/scontro tra i vari ego), hanno sempre precisato che il sesso risulta incompatibile (senza eccezioni) con la loro Opera di trasformazione della Materia — o, se si preferisce, lo Yoga sopramentale. Quando, per esempio, a Sri Aurobindo venne rivolta la domanda: «Che posto ha il sesso nel nostro Yoga?», egli rispose in modo alquanto lapidario ma grandemente esplicito: «Nessun posto.» — it has no place (dalle Letters on Yoga). Il sesso — Mère e Sri Aurobindo hanno sempre ribadito con forza — ha certamente il suo posto nella vita ordinaria e sarebbe alquanto sciocco e persino nefasto negarlo o reprimerlo, come troppo spesso in passato è avvenuto e come ancora oggi accade presso alcune società sessuofobe e maschiliste; ma il processo di trasformazione (incluse le sue delicatissime fasi preparatorie) che dall’attuale essere umano conduce a uno stadio postumano, passa necessariamente attraverso il superamento di ogni pulsione animale e umana.

Per contro, la sensualità occupa — nella poesia di Sri Aurobindo e nel Lavoro della trasformazione intrapreso insieme a Mère — un ruolo di indubbio rilievo. Giacché, come mirabilmente intuì il filosofo Nicolás Gómez Dávila nei suoi acutissimi “Aforismi”: «La sensualità è la possibilità permanente di riscattare il mondo dalla prigionia della sua insignificanza. La sensualità è la presenza del valore nel sensibile.»

Una delle prime risultanze considerevoli dell’azione sopramentale nel corpo fisico, consiste proprio nella trasformazione della percezione e del funzionamento dei sensi fisici. Sri Aurobindo vi ha dedicato un intero capitolo (particolarmente lungo) nell’ultima sezione del suo magistrale The Synthesis of Yoga — ne citiamo un breve estratto: «Non esiste nulla di realmente finito per il senso sopramentale, perché esso si fonda sul sentimento che tutto è in ogni cosa e che ogni cosa è il tutto. Ne risulta una percezione sensoriale che definisce senza creare muri divisori. Una sensualità oceanica e sottile, in cui ogni percezione sensoriale viene esperita come un’onda recante in sé una concentrazione dell’intero oceano.» (da The Supramental Sense).

Un ulteriore fraintendimento, in relazione alla sensualità, ha motivazioni sociali e religiose e, per certi versi, è ben più madornale e pernicioso. Le società moderne (in particolare quelle sviluppatesi da radici cristiane, ma non solo) sono in buona parte costruite sulla repressione, arrivando non di rado a intaccare e a menomare anche la naturale propensione a comunicare per mezzo dei sensi e, in modo più specifico, mediante la sensualità: basti pensare a come sia considerato un atto di aggressione, tra persone sconosciute, il guardare dritto negli occhi o il permettersi un qualche tipo di contatto fisico (o anche solo l’invasione dello spazio altrui — e ciò non soltanto all’interno della proprietà privata, ma perfino in strada e nei luoghi pubblici). Al filosofo Ludwig Feuerbach, uno dei più attenti e scrupolosi critici del cristianesimo (si veda il suo dotto e meticolosissimo “L’essenza del cristianesimo”), non era certo sfuggito il fatto che «quanto maggior valore i monaci attribuivano alla repressione della sensualità, tanto maggior valore assumeva per essi la figura della Vergine: sostituiva per essi perfino Cristo, perfino Dio. Quanto più la sensualità viene negata, tanto più sensuale è il dio a cui si sacrifica la sensualità.» E se, in aggiunta, consideriamo il fatto che i monaci (e i preti) hanno represso non soltanto la sensualità, ma anche e soprattutto la sessualità, ci sarà più facile capire (ma giammai giustificare!) come si sia potuto produrre un numero così elevato di deviazioni della personalità all’interno del clero, con tendenze patologiche tra le più aberranti (in primis, le molestie e le violenze sessuali sui bambini).

Collegandoci al ‘nostro’ testo drammaturgico, la sensualità della bellissima Urvashi, come si noterà leggendo il dettato poetico, è assolutamente perfetta, perché si esprime in modo del tutto spontaneo e, di conseguenza, arriva a manifestare meravigliosamente la ricca e celestiale personalità della protagonista. Urvashi non si atteggia mai, non segue alcun copione, alcun cliché — non è per nulla orientata a produrre una mimica o una gestualità artificiosa, individuata e preparata allo specchio. È semplicemente se stessa. Atteggiarsi è il tipico strumento utilizzato da chi intende ricorrere alle armi della seduzione per prendere d’assalto un preciso obiettivo al fine di ottenerne un qualche vantaggio, da quelli più evidenti (offrire prestazioni sessuali a pagamento, trovare un partner ricco da sposare o da accalappiare per fini egoistici), a quelli che fanno leva sull’inconscio collettivo, mediante l’utilizzo di messaggi espliciti o subliminali (pubblicità con riferimenti alla sessualità e/o alla sensualità, perfino nell'intento di vendere bambole alle bambine: l’indottrinamento deve iniziare dalla più tenera età se si vogliono ottenere effetti più duraturi, inculcando moduli comportamentali che risulteranno più difficili da sradicare dal tessuto facilmente manipolabile di quella 'massa' che si cerca di mantenere il più incolta possibile).

Un sistema sociale che abbia il proprio fulcro nell’egolatria è una società malata e moribonda, destinata a un sicuro collasso. Non c’è nulla di realmente sensuale e attraente nelle società cosiddette moderne: il bisogno di apparire, di essere al centro dell’attenzione, di distinguersi a tutti i costi (c’è chi è pronto a tutto per una semplice comparsata televisiva, figuriamoci dunque per altri obiettivi!), di diventare individui ricchi, potenti e di successo, di “godersi la vita”, sono in realtà le maschere di cartapesta di un regime aggressivo, violento, dispotico e dittatoriale. Infelicità, crescente disoccupazione, ingiustizia, alienazione, divisioni castali, squallore e assenza di bellezza sono i suoi reali risultati sociali, mascherati tuttavia — nei limiti del possibile — dietro facciate talmente sfavillanti da abbacinare lo sprovveduto e renderlo cronicamente cieco. Ma il gioco non può durare a lungo — la facciata inizia a mostrare crepe dappertutto e finirà per collassare su se stessa.

La vera sensualità, al contrario, permette di esprimere totalmente se stessi nel modo più genuino e spontaneo possibile (individuando in sé il vero elemento che rende ciascuno di noi veramente unico e, al tempo stesso, scoprendo di essere parte del tutto), per la sola gioia espressiva e vitale, liberi da condizionamenti e filtri culturali di qualsivoglia natura (aggressività o repressione che sia). È davvero sensuale la persona autentica, genuina, che non recita una parte e non indossa una maschera preconfezionata impostagli dall’esterno.

Kalidasa visse in un’epoca aurea in tal senso, un’epoca in cui fu avvertita come fondamentale la necessità di liberare la sensualità da qualunque tipo di repressione e da falsi moralismi, come pure da tutte quelle grossolane deformazioni che restringono il suo campo al punto da soffocarne la sua natura più essenziale e più nobile, il suo volo più spontaneo e sublime. Per estrapolare una citazione dall’introduzione di Sri Aurobindo, anticipando in piccola parte i tesori contenuti, «l’anima di un’intera epoca si rispecchia in Kalidasa. Un’epoca in cui l’India, dopo avere cercato il Divino nello spirito e nell’azione, si risolse a cercarlo attraverso i sensi. Kalidasa non tralascia nulla, non trascura nessuna gioia sensoriale o intellettuale, non accantona nessuna possibilità di inebriarsi della vita.»

Non a caso, gran parte della ricerca mistica successiva, in India (e nel mondo intero, ovviamente), utilizzerà abbondantemente la sensualità come un mezzo magnifico e nient’affatto trascurabile di ascesa spirituale — una delle porte principali, non un angusto passaggio secondario; basti pensare ai varî movimenti ispirati dal principio della bhakti e alla copiosissima letteratura a essi collegata... Innumerevoli ricercatori spirituali hanno efficacemente utilizzato (e utilizzano tutt’oggi) le arti — poesia, musica e canto, scultura, danza... — come adeguati e felicissimi strumenti di elevazione interiore e, insieme, per manifestare la loro devozione o per celebrare un raggiunto contatto con il Divino (e, notiamo a tal proposito, quale forma d’arte a noi conosciuta è capace di esprimere maggiore sensualità della danza?).

È forse opportuno ricordare, prima di prendere congedo, che la sensualità non ha genere — non soltanto essa non è esclusivamente femminile (come nel passato spesso si tendeva erroneamente a presumere), ma non è neppure vincolata al rapporto tra i generi (maschile e femminile). Il popolo che maggiormente può aiutarci a individuare con maggiore forza e concretezza un simile apogeo di sublime astrazione estetica è, con ogni probabilità, quello giapponese: quale altra etnia umana ha saputo meglio esprimere questo tipo di pura sensualità in grado di trascendere la polarità maschile/femminile mediante atti concreti come la creazione dei loro giardini (nihon teien) di superlativa grazia, l’ikebana, la cerimonia del the (dove, come si sa, non ha alcuna importanza che l’officiante sia uomo o donna — la sensualità è espressa mediante la perfezione estetica dell’atto, in grado di suscitare nel fruitore un'esperienza di indicibile pienezza e di perfetta pace)?

Nel presente articolo abbiamo voluto limitarci a offrire qualche semplice spunto, senza entrare troppo nei dettagli, sperando che il lettore curioso e sensibile si senta spinto a compulsare direttamente quello scrigno colmo di tesori costituito dal libro “URVASHI e PURURAVAS”.

Segnaliamo in chiusura — come particolarmente esemplare e altamente istruttivo — il ricchissimo mito puranico relativo alla creazione di Urvashi da parte del divino Narayana, così come riassunto e svelato, nel suo più riposto e dovizioso simbolismo, dalla penna eccelsa di Sri Aurobindo nella citata introduzione. Pagine destinate ad aprire una breccia e a far germogliare gli innumerevoli semi in esse contenuti, producendo frutti di ineguagliabile sapore e nutrimento nella nostra esperienza e perfino negli aspetti più concreti della nostra esistenza e della nostra quotidianità.

Buona lettura!

© Tommaso Iorco

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