LA SCIENZA PURA


L’impresa scientifica è iniziata circa 2500 anni or sono, come tentativo di comprendere l’universo, prima ancora che di cambiarlo.
Alla base della ricerca scientifica c’è un principio etico, il principio di bontà epistemica o di eusofia, che può essere sintetizzato in una breve locuzione: «la conoscenza è bene, l’ignoranza è male».
Questo principio è stato cristallizzato nel concetto di “scienza pura” dal sociologo statunitense Robert K. Merton:

«Un sentimento che è assimilato dallo scienziato fin dall’inizio della sua formazione è quello che la scienza deve essere pura. La scienza non può tollerare di entrare al servizio della teologia, dell’economia o dello Stato. La funzione di questo sentimento è probabilmente quella di preservare l’autonomia della scienza. Infatti, se si adottassero criteri extrascientifici del suo valore, come la presumibile corrispondenza con dottrine religiose o con l’utilità economica o con la convivenza politica, la scienza diventerebbe accettabile solo se fosse in possesso di questi requisiti. In altre parole, se si eliminasse il sentimento che la scienza deve essere pura, essa soggiacerebbe al controllo diretto di altri enti istituzionali e la sua posizione nella società diverrebbe sempre più incerta. Il rifiuto continuato degli scienziati di applicare norme utilitaristiche al loro lavoro ha come funzione principale quella di evitare questo pericolo che è particolarmente sensibile nella nostra epoca. Un tacito riconoscimento di questa funzione può essere la ragione di quel brindisi, profondamente apocrifo, a un pranzo di scienziati a Cambridge: “Alla matematica pura e che essa possa non servire mai a nessuno!”».

Alla base della ricerca scientifica ci sono le domande tipiche della filosofia: Com’è fatto l’universo? Come è venuto in essere? Che cos’è la materia? Cos’è la vita? Cos’è la coscienza? Cos’è l’uomo? Qual è il suo destino? E soprattutto: perché c’è qualcosa, piuttosto che nulla?

Se, da un lato, gli scienziati hanno spesso interpretato la propria missione come il tentativo di scoprire la verità ultima sul divenire, dall’altro non sono pochi fra quelli attuali che riconoscono i limiti cognitivi dell’uomo e quindi la possibilità che si sia ormai vicini alla frontiera della conoscenza possibile dalla ragione umana. Quanto sappiamo è ciò che possiamo sapere, dati i nostri sensi e le nostre capacità cerebrali.

Il fatto stesso che alcune ricerche abbiano portato a progressi sorprendenti, mentre altre sono soggette a continui fallimenti potrebbe dipendere da nostri limiti strutturali.
Prima dell’esistenza della scienza moderna, molte questioni sembravano misteri irrisolvibili. Poi, Copernico, Galileo, Keplero, Newton, Descartes e altri hanno dato avvio alla rivoluzione scientifica e hanno spiegato molti di questi misteri riguardanti la materia e il cosmo.
Ci siamo allora illusi che a noi esseri razionali nessuna conoscenza fosse preclusa, che non ci sia mistero che non si possa risolvere con il metodo scientifico.
Mentre, in realtà, dobbiamo accettare il fatto che la ragione umana è un prodotto dell’evoluzione e che ha dei limiti. E sarebbe del tutto illogico pensare che un organo limitato possa comprendere l’illimitato.

Noam Chomsky offre una argomentazione molto convincente in tal senso.
Un topo può imparare a uscire da un labirinto in cui è necessario girare a sinistra ogni due biforcazioni, ma non riesce a comprendere la soluzione se essa richiede di girare a sinistra a ogni biforcazione che corrisponde a un numero primo. La mente matematica dei ratti ha dei limiti ben riconoscibili. O, per lo meno, essi sono ben riconoscibili da noi che siamo in grado di trascenderli.
Se perciò ammettiamo che noi essere umani siamo animali provvisti di raziocinio, dobbiamo ammettere che certi problemi non riusciremo mai a risolverli, perché sono oltre le nostre possibilità.
E non solo non possiamo rispondere a certe domande, ma non possiamo nemmeno formulare certe domande. Il topo, probabilmente, non si chiede che cos’è la coscienza o il libero arbitrio, così come noi non ci poniamo domande su questioni reali che non riusciamo a percepire con i sensi e nemmeno a immaginare con la ragione.

I nostri limiti potrebbero però essere riconosciuti e superati da essere postumani dotati di sensi e capacità di calcolo ed elaborazione che noi non possediamo. In altre parole, se ci potenziassimo e diventassimo esseri sovrumani, oppure se costruissimo dei successori transumani, potremmo forse ottenere la Risposta. Questa, almeno, è l’ipotesi di alcuni grandi nomi della scienza, a cominciare da Stephen Hawking.

Anche alcuni filosofi sono giunti alla medesima conclusione. Daniel Dennett (docente di filosofia alla Tufts University) sottolinea che una mente umana può difficilmente capire una mente umana, ovvero se stessa. Per capirsi dovrebbe trascendersi. «L’unica speranza che gli umani hanno per comprendere la loro stessa complessità potrebbe essere cessare di essere umani», conclude Dennett.
Come non pensare all’ascesa metodica alla coscienza SOPRAmentale operata da Sri Aurobindo? Non a caso egli, nel suo libro The Life Divine (“La Vita Divina”), ci presenta soluzioni e risposte che nessuno aveva mai azzardato.

Alcuni ricercatori (lo stesso Hawking figura fra questi) restano convinti del fatto che una macchina superintelligente, un computer particolarmente sofisticato, potrebbe un giorno sopraffare in intelligenza i loro creatori e ottenere risposte più alte per proprio conto. Ma, in questo caso, il problema si sposterebbe al livello meta. Quelle macchine superintelligenti, se vale la medesima premessa, non saranno in grado di capire se stesse. Capirebbero e spiegherebbero la mente umana, ma non la propria. In definitiva, umani e macchine entrerebbero in una spirale senza fine di crescente complessità «mordendosi le unghie per l’eternità», per usare una bella immagine di Horgan.

In ogni caso, l’imperativo categorico per noi esseri umani resta quello di crescere. Per citare nuovamente Horgan: «la cosa importante per noi credo sia crescere, per non rimanere nel nostro presente stupido stato. Noi umani siamo soltanto degli scimpanzè vestiti».
Il nostro compito non è di conservare le condizioni presenti, ma di evolvere, creare esseri migliori, più intelligenti e progrediti. E discriminare gli esseri postumani è visto da Marvin Minsky (il genio dell’intelligenza artificiale) come una forma di razzismo.

Ma per questo rimandiamo alla serie di articoli contenuti ne L’UOMO OLTRE L’UOMO.