Silviu Craciunas e “Le tracce perdute”

- a cura delCENTRO STUDI arya -

silviu

L’unico libro che il nazionalista rumeno Silviu Craciunas scrisse, “The Lost Footsteps” (pubblicato nel 1961), è un resoconto autobiografico della sua personalissima esperienza di leader contro l’occupazione sovietica del proprio paese (avvenuta, come è noto, all’indomani della Seconda guerra mondiale e sfociata nella costituzione di una Repubblica Popolare comunista nel 1947).

Silviu Craciunas era laureato in legge e in scienze economiche e politiche; aveva inoltre effettuato studi di medicina. Fu dirigente in alcune aziende rumene fino al 1948, anno in cui tutte le imprese private vennero nazionalizzate dal regime comunista. A quel punto, Craciunas si unì ad alcune organizzazioni segrete di resistenza contro l’occupazione sovietica. Braccato dalla polizia, aiutò diverse personalità a fuggire alla cattura e a mettersi in salvo in Europa o in Canada. Quando venne arrestato, fu sottoposto a varie torture: per quattro anni subì interrogatori e sevizie (mentali e fisiche), per indurlo a fare i nomi dei suoi compagni di lotta. Allo stremo della sopportazione, Craciunas decise che l’unica via d’uscita era il suicidio.

È a quel punto che iniziò a ricevere visioni di tutt’altra natura rispetto alle frequenti allucinazioni che la privazione del cibo, del sonno e le torture gli causavano. Come descrisse nel suo libro, iniziò a ricevere una serie di visioni di un saggio indiano che si presentò a lui con il nome di Aurobin Dogose (e che, come sappiamo, è l’errata trascrizione di Aurobindo Ghose, di cui Craciunas mai aveva sentito parlare). Le conversazioni intrattenute durante queste visioni gli diedero la forza di resistere alle torture, e l’assicurazione che si sarebbe alla fine salvato. Fuggito dalla prigione, infatti, trovò asilo in Inghilterra dove scrisse il resoconto dettagliato delle sue vicissitudini nella biografia suddetta.

Il presente articolo si concentra soprattutto sulla relazione con Sri Aurobindo, che inizia a pagina 167 del libro.

Prima di lasciare la parola allo stesso Craciunas, riportiamo un passaggio dell’Agenda di Mère del 15 giugno 1963 in cui si fa riferimento a lui:

«La sai la storia di quel rumeno che è stato torturato dai comunisti e che ha avuto la visione di Sri Aurobindo. D’altronde non l’ha visto così com’è realmente, ma secondo la sua concezione: magro e ascetico. Ma alla fine questa apparizione gli ha detto: “Io sono la tua anima”, eccetera. Però, siccome non ha mai visto il nome di Sri Aurobindo, lo ha trascritto in modo stranissimo: Aurobin Dogos... Si direbbe che ci fosse davvero qualcosa di Sri Aurobindo. Comunque, gli ha dato la forza di attraversare tutte quelle torture — torture spaventose, inimmaginabili. Ed è riuscito a fuggire; un tizio lo ha aiutato a scappare (adesso è al sicuro in Inghilterra). Ma in quei momenti soffriva tanto che aveva pensato di lasciarsi morire; ed è stata quella ‘voce’, quell’apparizione che ha avuto e gli ha parlato per ore e ore, a dargli coraggio. Gli ha detto che “l’anima non si scoraggia mai, perché ha qualcosa da compiere” eccetera, e che doveva resistere. Ed è per questo che lui ha potuto resistere.

Cose analoghe sono successe anche altrove.»

Ed ecco quello che Craciunas racconta in prima persona:

     «Ero intenzionato a tagliarmi le vene del polso sinistro. Decisi di farlo sdraiato sul letto, di notte, in modo da poter nascondere la mano sotto la coperta, lasciando che il sangue venisse assorbito dal materasso; in tal modo, nel giro di un’ora il mio cuore  avrebbe smesso di battere senza che le guardie se ne accorgessero. Poi, in un secondo momento, mi domandai che cosa sarebbe successo se le guardie mi avessero chiesto, come spesso facevano, di mettere le braccia fuori dalla coperta e di voltarmi verso la luce. Avrebbero certamente notato il sangue o il mio viso farsi sempre più cereo.» (pag. 165)

Craciunas decise quindi di cambiare tattica e di procurarsi una fune per impiccarsi. Nel frattempo, era vittima di continue allucinazioni.

«Una sera, mentre il diffusore radiofonico aveva iniziato a propagare la sua desolante musica, la parete di fronte a me svanì e, al suo posto, una catena di montagne innevate prese a risplendere alla luce aurorale. In primo piano si stagliava un tempietto indiano dedicato alla dea Kali. Un ampio albero gli faceva ombra. Ai suoi piedi, un vecchio uomo stava seduto a gambe incrociate, mentre le mani riposavano sulle cosce alla maniera dei brahmini. Aveva una lunga e sottile barba bianca. Il suo volto ascetico aveva la medesima serenità del cielo azzurro che si stendeva al di sopra delle vette scintillanti. Quando lo fissai, chinò leggermente il capo, sorrise e disse: “A quanto pare mi hai dimenticato. Non ricordi Aurobin Dogose, il brahmino?”

Durante la visione, mi udii rispondere: “Non immagini nemmeno quanto a lungo ti abbia cercato e chiamato...”

“Ho dovuto compiere un lungo viaggio per venire qui,” mi disse. “Mi sono occorsi sessant’anni.”

A partire da questa visione, ho vissuto per parecchi mesi in compagnia del ‘brahmino’ che, all’epoca, credevo si trattasse di una persona reale altra da me stesso. Tengo tuttavia a precisare che queste visioni erano radicalmente differenti dagli incubi allucinatori cui andavo soggetto. In qualche modo, devo avere raggiunto un più profondo livello del mio essere e queste nuove esperienze, invece di aiutare i miei nemici come avveniva con le allucinazioni, segnarono l’inizio di un periodo di integrazione spirituale.» (pagina 167).

Cogliamo l’occasione per ricordare che Sri Aurobindo non era un brahmino, né un eremita, come lo chiamerà Craciunas più avanti, sebbene sempre tra virgolette. Diversi elementi di queste visioni sembrano deformati dalle particolari idiosincrasie di chi le ha ricevute, anche se — complessivamente — hanno un sapore indiscutibilmente genuino.

«Ebbi lunghe conversazioni con ‘l’eremita’ e fu ‘lui’ a dissuadermi dal commettere suicidio, convincendomi che la vita è sacra e che deve essere vissuta fino all’ultimo. Gli risposi che, rinchiuso in quella prigione e oppresso giorno e notte senza un attimo di tregua, avevo raggiunto i limiti della mia resistenza. “Dimmi,” gli chiesi, “sono vittima di questi uomini che mi tengono prigioniero, oppure sono alla mercè di qualche spietata, cieca legge della natura?”. Mi espose il suo punto di vista sulla sofferenza. “Vi sono individui che distruggono,” mi disse, “mentre altri sono destinati a opporre resistenza a una particolare avversità, oppure a intraprendere un’azione creativa e positiva; i primi sono corrotti, perdono il controllo di sé e diventano crudeli e vendicativi, gli altri crescono in forza e grazia”.

“Ma che cosa può fare un uomo da solo, senz’altra arma oltre alla propria libera volontà, contro una sciagura che lo bracca?”

Per tutta risposta, mi narrò una storia.

“Una coppia di gabbiani avevano nidificato sul tetto della capanna di un pescatore nei pressi della spiaggia. Per insegnare ai loro piccoli a volare, essi li trasportavano sull’oceano, cercando di abituarli gradualmente a percorrere distanze sempre più lunghe e a fronteggiare le difficoltà che avrebbero incontrato durante la loro migrazione. Gli uccellini frecciavano nell’aria, assaporando l’ebbrezza del volo e della libertà, quando una raffica di vento scaraventò uno di loro contro la superficie delle onde. Il piccolino tenne le ali talmente spalancate che non annegò, ma non riusciva a levarsi nuovamente in volo; fluttuando come una foglia, prese a gridare disperatamente verso i suoi genitori che gli volteggiavano intorno. Questi fecero di tutto per cercare di tranquillizzarlo e di incoraggiarlo, poi iniziarono a compiere una serie di viaggi verso la spiaggia, ogni volta riempendosi il becco di acqua e svuotandolo sulla spiaggia. In questo modo, speravano di svuotare l’oceano per salvare il loro piccolo.

Questo sforzo eroico è per noi di grande insegnamento — aggiunse il ‘brahmino’; — analogamente, la volontà umana e il suo spirito non devono mai rassegnarsi nei momenti di difficoltà: devono continuare a lottare per cercare una soluzione, per quanto insormontabili possano apparire gli ostacoli. Tu non devi accettare la sconfitta, né devi credere che i tuoi sforzi siano vani. Se persisti nel tuo coraggio ostinato di continuare a resistere e a lottare, ti si schiuderà un nuovo inizio per la tua vita.”

Le mie conversazioni con ‘l’eremita’ che viveva in solitudine nei pressi del tempio della dea Kali si protrasse per diversi mesi. All’esterno, la primavera fece la sua comparsa: l’aumentare della luce e un primo tepore nell’aria furono i primi segnali. Ma chi era questo ‘brahmino’? Perché stava cercando di darmi un sostegno così prezioso? Comprendendo la mia perplessità, egli sollevò delicatamente la sua mano pallida, quasi scheletrica e colpì la mia fronte con le sue dita fredde. Come trasfigurato, mi disse con forza: “Vuoi sapere chi sono? Sono il tuo spirito; il tuo intelletto! Tu mi hai implorato in un momento di profondo sconforto. Nel tuo isolamento e nella tua situazione disperata, ho potuto incoraggiarti in modo da risollevarti il morale e rafforzare la tua volontà; nessun altro avrebbe potuto venirti in soccorso. Abbi fiducia nella mia forza e non te ne pentirai mai!”

Questo incontro determinò in effetti una svolta nella mia vita. A poco a poco, i miei incubi mi abbandonarono e scoprii una calma interiore e un equilibrio, riuscendo a ottenere un controllo sulla mente e sul corpo.» (pagine 168-69).

Qui abbiamo un’indicazione tipica del modo di operare di Sri Aurobindo, che pende decisamente a favore della genuinità dell’esperienza di Craciunas, pur nella variabilità della percezione soggettiva: il presentarsi a lui come la sua essenza più intima e non come un potere esterno che cerca di imporsi o, peggio ancora, di manipolarlo.

Ma lasciamo all’autore continuare il proprio resoconto:

«Dopo giorni e settimane di pratica, mi resi conto che potevo restarmene immobile sulla sedia per ore, con la nuca appoggiata contro il muro e gli occhi aperti. Respiravo profondamente e in modo regolare, controllando con la mia volontà i battiti cardiaci e mantenendoli regolari. La fame e la stanchezza avevano una presa di gran lunga inferiore rispetto a quando mi esaurivo camminando avanti e indietro nella cella, lottando contro la sonnolenza. La mia esigua razione di cibo e le due o tre ore di sonno al giorno che mi venivano concesse si rivelarono sufficienti per le mie necessità fisiche di sopravvivenza.

Distaccare completamente la mente da quanto mi stava intorno prese invece più tempo e mi richiese un maggiore sforzo. Al principio, cercai di convincermi che ero uno spettatore in una stanza buia: la mia vita di prigione era solo un film proiettato su uno schermo, che imparai a interrompere a volontà. A uno stadio successivo, riuscii a osservare il mio stesso corpo, seduto immobile sulla sedia, come fosse una fotografia. E, in seguito, arrivai a percepire il mio spirito in grado di travalicare i muri della prigione e a compiere lunghi viaggi. I secondini erano sbalorditi dalla trasformazione che i miei occhi avevano assunto: un uomo che loro avevano conosciuto come un individuo irrequieto, sul punto di sprofondare nel baratro della pazzia per mancanza di sonno, adesso appariva loro calmo e immobile come una statua. Di tanto in tanto, bussavano alla porta della mia cella e mi ordinavano di muovere il capo o di sbattere le palpebre, per assicurarsi che ero ancora vivo e lucido. Interiormente, raggiunsi una pace e una serenità sconosciute prima di allora.» (pagina 169).

«In questo libro dedicato alla descrizione degli eventi accorsimi, non c’è spazio per dilungarsi in trattazioni filosofiche. Ne ho fatto menzione solo perché fu lo sviluppo di tali idee che mi diede la volontà di sopravvivere per potere un giorno raccontare all’Occidente le mie vicissitudini.» (pagina 170).

«È vero che i teorici del comunismo concepirono un’idea di società priva di lotte di classe e di sfruttamento — una società libera dalle ingiustizie o da coercizioni di sorta. Ma questo sembrò loro possibile solo alla fine di una spietata battaglia ‘dialettica’ fra gli opposti, e a me parve evidente che sarebbe stato impossibile che tali mezzi potessero condurre a un simile fine.

Sedendo all'interno della mia cella, ebbi la visione del nostro secolo come di un momento in cui l’anima e lo spirito dell’uomo sono sottoposti una prova decisiva. Non soltanto i sistemi sociali, ma anche quelli religiosi e filosofici stanno attraversando il fuoco di un purgatorio terrestre. Il destino di milioni di esseri umani, nel corso dei secoli, dipende dal successo o dal fallimento dei valori eterni e positivi, e dalla capacità di ciascun uomo di comprendere il passaggio e di affrontarlo.» (pagina 173).

...Un lungo passaggio in cui, per la verità, l’intera umanità è ancora completamente immersa, purtroppo in modo perlopiù inconsapevole. Se, come Craciunas, ogni signolo individuo (magari evitando di dover passare per una prova così radicale!) riuscisse a svegliarsi, a prendere coscienza della transizione e delle eccezionali conseguenze implicate, le cose potrebbero volgere in breve tempo verso il meglio.

Così, in ogni caso, avvenne per Craciunas. I suoi carcerieri, vedendolo in quello stato e temendo che potesse morire senza prima avere fatto i nomi dei suoi compagni di resistenza, lo sottoposero a un esame medico per verificare la sua resistenza alle torture. Si era nel marzo del 1950. E, durante le 24 ore di detenzione nell’ospedale militare, essendo claudicante a causa delle percosse continue e, quindi, reputandolo incapace di fuggire, venne lasciato per due minuti da solo nel gabinetto. Questo gli fu sufficiente per eludere la sorveglianza e fuggire dall’ospedale. Visse per diversi mesi nascosto sottoterra, sempre a rischio di essere nuovamente catturato e sopportando privazioni e sofferenze facilmente immaginabili. Tentò di contattare alcuni amici, ma questi lo credevano ormai morto. Solo la sua compagna, Alba, riuscì a mettersi in contatto con lui. Ciò nonostante, le difficoltà da affrontare furono enormi e, trovatosi al confine con l’Ungheria e riuscito a impossessarsi di una pistola sottratta a una guardia, riuscì a fuggire attraverso i boschi ungheresi e, seppure mentalmente e fisicamente allo stremo, continuò a procedere in direzione opposta al confine. In sette anni, fino al mese di marzo del 1957, Craciunas attraversò l’Europa dell’Est per incontrare la sua amata Alba in Austria, a Vienna. Nell’autunno di quello stesso anno, grazie all’intercessione di un amico, riuscì a imbarcarsi per l’Inghilterra dove venne accolto come rifugiato politico e una casa editrice si mostrò subito interessata a pubblicare il resoconto delle sue peripezie.