Sri Aurobindo

e la filosofia

a cura di Tommaso Iorco
(autore tutelato S.I.A.E.)


Vorrei iniziare questa breve riflessione su “Sri Aurobindo e la filosofia” con una citazione piuttosto celebre — estremamente illuminante, ma anche parecchio fraintesa — tratta da una lettera che Egli stesso scrisse a un suo corrispondente:

«Della filosofia… lasciatemi dire che mai, mai e poi mai sono stato un filosofo, benché di filosofia ne abbia scritta, ma questa è un’altra faccenda. Prima di mettermi a praticare lo yoga, di filosofia ne sapevo davvero pochissimo: ero poeta e mi occupavo di politica, non certo di filosofia! Com’è allora che sono riuscito a cavarmela?… Ebbene, mi sono limitato a trasporre in termini intellettuali ciò che avevo osservato e appreso un giorno dopo l’altro nella pratica dello yoga: in tal modo la filosofia nasceva spontaneamente. Ma questo non vuole certo dire essere un filosofo!».

Per capire a fondo una simile dichiarazione, occorre anzitutto chiedersi cosa significa, oggi, essere un filosofo.
Generalmente, la società considera ‘filosofo’ qualcuno che ha studiato filosofia in un ateneo più o meno prestigioso e che, in seguito, si è distinto per avere apportato un qualche contributo (più o meno significativo) allo sviluppo del pensiero filosofico globale, attraverso specifiche pubblicazioni.
Da questo punto di vista, Sri Aurobindo ha, sì, compiuto i suoi studi giovanili presso una delle università più prestigiose esistenti (la più prestigiosa in assoluto, all’epoca in cui egli la frequentò, vale a dire il college di Cambridge), ma presso la facoltà di letteratura, non di filosofia. E durante l’intera sua vita i suoi interessi intellettuali furono sempre concentrati sulla poesia. I soli testi filosofici che studiò e meditò davvero a fondo, furono — non a caso — opere di POESIA mistico-filosofica. Per riprendere un’altra citazione (meno celebre ma non meno rivelatoria della prima) tratta da una conversazione del 1940:

«In passato provai a leggere Kant, ma non mi fu possibile andare oltre la prima pagina — vale a dire che quelle parole non mi apparivano per nulla vive. […] È stato solo quando mi sono elevato al di sopra della mente che ho potuto davvero capire filosofia e scriverne a mia volta. Idee e pensieri hanno incominciato a riversarsi a fiotti, insieme alle esperienze spirituali, a intuizioni e percezioni, e in tal modo ho potuto erigere la mia filosofia su una sorta di rivelazione. Per cui, non si è trattato di alcun processo mentale né di ragionamento logico. La gente crede che io sia immensamente acculturato e che sappia tutto su Kant, Hegel e gli altri… Ma la verità è che non li ho mai letti; i più ignorano che ho scritto tutto basandomi sulla mia esperienza e percezione spirituale. I filosofi moderni agghindano le loro idee con una fraseologia portentosa, ma si avverte in essi troppa ginnastica mentale — oltretutto, non mi pare siano riusciti a andare più in profondità di quanto abbiano fatto i greci nelle loro speculazioni e teorie. Della filosofia indiana ho letto in modo approfondito le Upanishad e la Gita, poiché esse mi appaiono, fondamentalmente, come il risultato di esperienze spirituali. Ho provato a leggere anche alcuni testi di Ramanuja, di Shamkara e altri, ma mi sono apparsi come un insieme di mere parole e concetti, e per giunta Ramanuja conclude affermando che nessuno può avere l’esperienza della Pura Coscienza — un’affermazione che trovo sbalorditiva e assurda».

Se consideriamo la filosofia come una particolare visione del mondo, in un modo o nell’altro ogni essere umano possiede una propria filosofia, che lo sappia o no.
Infatti, chi è sprovvisto di una propria concezione filosofica elaborata coerentemente e consciamente, giocoforza è costretto (perlopiù inconsapevolmente) a far proprie le idee (e con essa i preconcetti, i pregiudizi, i dogmi) della società e dell’ambiente in cui vive.
Nel mondo attuale, per fare un esempio concreto, chi non elabora scientemente una propria visione delle cose, avrà la testa infarcita di opinioni di seconda mano, inculcategli dai mass media (televisioni, giornali), dalle credenze religiose o atee del suo ambiente, dagli insegnanti delle scuole che ha frequentato, dalla sfera di persone con le quali si è relazionato (parenti, amici, colleghi di lavoro).
Chi invece, per contro, compie una ricerca e una investigazione libere e personali, un’opera di indagine al di fuori della norma e delle convenzioni, questi può essere considerato un vero filosofo. E se, in aggiunta, ha avuto modo di apprezzare l’essenza del retaggio filosofico-culturale del passato (esteso il più possibile a livello planetario e non limitato a una sola cultura, sia essa europea, indiana, cinese o altra ancora), senza ovviamente restarne asservito, ma riuscendo a esaminarla criticamente alla luce della propria personale esperienza e conoscenza, tanto meglio.
Tuttavia, è interessante notare a questo proposito che un simile individuo sarà considerato dalla stessa società umana sostanzialmente come un DISSIDENTE (i dizionari spiegano che si diventa dissidenti quando si cessa di sottomettersi a una autorità prestabilita, o quando ci si separa da una comunità).
Si dice che l’essere umano è un animale sociale, ma questo è soltanto un lato della verità — costituisce l’aspetto positivo, per così dire; purtroppo l’uomo è anche e soprattutto un animale gregario, che necessita del branco (o meglio del gregge!) per sentirsi ben protetto e nel giusto, assumendo di conseguenza tutta una serie di comportamenti (anche marcatamente irrazionali, talvolta — e, comunque, tutti terribilmente stereotipati) pur di dimostrare di essere perfettamente integrato e di uniformarsi allo status della massa. E, si badi bene, lo stesso atteggiamento ‘anticonformista’ rientra perfettamente nelle regole del gioco: l’anticonformista è colui che, perfettamente integrato, gioca tuttavia ad apparire diverso e, ciò facendo, si genuflette a suo modo alla sovranità di quel conformismo di cui egli stesso è al servizio (a differenza del dissidente, che non è minimamente interessato ad apparire o atteggiarsi a diverso, perché LO È, fondamentalmente e inalienabilmente).


Nella sua opera filosofica principale, The Life Divine (“La Vita Divina”), Sri Aurobindo testimonia un lavoro d’indagine assolutamente originale e genuino e di totale onestà.
Dopo un primo capitolo teso a inquadrare l’argomento principe del trattato (l’esposizione di una Conoscenza integrale che coniughi tutte le più disparate antinomie del pensiero e dell’esperienza), Egli dedica due capitoli consecutivi — il secondo e il terzo — alle tendenze che maggiormente hanno influito sull’evoluzione del pensiero moderno: il materialismo e l’ascetismo.
Vorrei tentare di spiegare, a mio modo, la motivazione profonda che ritengo stia alla base di questa scelta operata da Sri Aurobindo in apertura della sua più importante opera in prosa. E, per farlo, devo effettuare una serie di considerazioni che risulteranno ovvie a chi esercita la filosofia di mestiere.

Partiamo da un dato di fatto: storicamente, in una determinata fase dell’evoluzione sociale, si è imposta una particolare concezione, cosiddetta ‘dualistica’, la quale separa drasticamente l’anima dal corpo, la mente dalla materia, il pensare dal fare. Questa radicale divisione — ci dicono i filosofi marxisti — si intensificò particolarmente con la separazione del lavoro manuale da quello intellettuale e, quindi, con la comparsa delle classi sociali. Accanto alla maggioranza degli esseri umani, costretti a lavorare per vivere, emerse una minoranza che poteva permettersi il lusso di non faticare per procurarsi i mezzi di sussistenza. L’egoismo umano, purtroppo, ha fatto sì che chi ha potuto godere di un tale privilegio, nella stragrande maggioranza dei casi, abbia sempre cercato di utilizzarlo come fonte di potere per sottomettere le classi meno fortunate (vale a dire, la massa), anziché per cercare di aiutare l’intera umanità a liberarsi dalla schiavitù del lavoro, in modo da rendere possibile l’utopia di una società in cui gli uomini possono dedicare il loro tempo ad attività più creative.
Fra le molteplici conseguenze di tale divario, vi è anche la lotta fra le due scuole principali di pensiero filosofico considerate in maggiore contrasto: il materialismo e l’idealismo.
Il materialismo afferma che il mondo materiale è l’unico mondo reale; le idee, le sensazioni, le emozioni sono il prodotto della materia organizzata in un determinato modo (in fin dei conti, il sistema nervoso e il cervello sono organi materiali); le categorie concettuali del pensiero, secondo questa prospettiva, sono creazioni derivate del mondo oggettivo che sperimentiamo attraverso i nostri sensi fisici.
L’idealismo (che ha in Platone il suo più autorevole portavoce), invece, parte dal presupposto che il mondo materiale è soltanto un riflesso delle idee o, più correttamente, dell’Idea, che preesiste al mondo fisico. In quest’ottica, la realtà che conosciamo attraverso i nostri sensi è una copia imperfetta di questa Idea perfetta.
Dall’idealismo filosofico, poco per volta, si imporrà con forza un sostanziale disprezzo per le cose del mondo e il tentativo di elevarsi al regno del puro Ideale, negando e spregiando la materia; questo atteggiamento determinerà la nascita di indirizzi non solo filosofici ma anche religiosi, che hanno fortemente influenzato la società umana moderna (basti pensare a vasti movimenti quali il buddhismo monastico e l’ascetismo cristiano).
Ecco quindi concretarsi quelle che Sri Aurobindo indica per l’appunto come le due grandi negazioni: “il diniego del materialista” da una parte e “il rifiuto dell’asceta” dall’altra — l’opposizione fra Spirito e Materia.
Mostrando i limiti e l’utilità storica di entrambe queste scuole filosofiche, Sri Aurobindo illustra subito dopo quella luminosa conciliazione degli opposti che supera ogni parziale visione, attraverso la definizione di quella che Egli stesso definisce “L’Idea-Reale” (The Real-Idea).

«Un principio di Volontà e Conoscenza attive, superiore alla Mente e creatore dei mondi è il potere e lo stato d’essere intermediario fra l’Uno che possiede se stesso e il flusso del Molteplice. Questo principio non ci è completamente estraneo; non appartiene esclusivamente e in modo incomunicabile a un Essere che è totalmente altro da noi o a uno stato di esistenza dal quale siamo misteriosamente proiettati dalla nascita ma anche rifiutati, incapaci di ritornarvi. Anche se ci sembra arroccato su altezze molto al di sopra di noi, si tratta pur sempre delle altezze del nostro stesso essere, accessibili al nostro incedere. Possiamo non solo intuire e intravedere quella Verità, ma siamo pure in grado di realizzarla mediante una progressiva espansione o un improvviso e luminoso superamento di noi stessi».

E, a ben vedere, il tentativo di trovare una conciliatio oppositorum ha da sempre appassionato i filosofi. Un inconciliabile divario fra Spirito e Materia non è mai riuscito a imporsi definitivamente nella coscienza filosofica e pratica dell’umanità; al contrario, la conciliazione di questi due termini in un principio supremo di unità è sempre stato considerato il traguardo supremo della filosofia.
Non dimentichiamo che i primi tra i filosofi greci furono chiamati “ilozoisti” (dal greco hyle, ‘materia’, e zoè, ‘vita’ — ovvero “chi crede cha la materia sia viva”), in quanto concepivano la materia come una forza dinamica vivente che possiede in se stessa animazione e movimento e sensibilità (come a dire, una forma manifesta dello Spirito vivente).
Nella filosofia contemporanea, in particolare, due personaggi si sono distinti per avere compiuto alcuni significativi passi in direzione di una possibile conciliazione: Kant e Hegel.
Immanuel Kant (1724-1804) sottopose, in particolare, tutta quanta la filosofia occidentale che lo precedette a una critica sufficientemente esauriente. Il suo testo principe, la Critica della Ragion Pura, fu la prima opera filosofica ad analizzare le cosiddette “forme della logica” (che erano rimaste praticamente immutate dalla prima sistematizzazione compiuta da Aristotele). Kant dimostrò le contraddizioni insite in molte delle proposizioni fondamentali della filosofia. Tuttavia, egli non riuscì a risolvere queste antinomie e trasse infine la conclusione che una vera conoscenza del mondo fosse impossibile.
George Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), presentò attraverso i suoi scritti (in particolare nella Enciclopedia delle scienze filosofiche) una summa di tutta l’evoluzione del pensiero filosofico fino ai suoi tempi (compreso, nei limiti delle sue conoscenze, quello orientale). E, diversamente da Kant, sostenne che le forme del pensiero devono riflettere il più fedelmente possibile il mondo oggettivo. Il processo conoscitivo consisterebbe quindi nel penetrare sempre più profondamente questa realtà, procedendo dall’astratto al concreto, dal noto all’ignoto, dal particolare all’universale.
Dopo Kant e Hegel sono giunti importanti contributi alla ricerca filosofica, ma l’agognata ‘conciliazione degli opposti’ è rimasta una meta ancora da raggiungere.
Sri Aurobindo, partendo fondamentalmente dalla propria personale esperienza spirituale, non interessato ad approfondire le opere di Kant e di Hegel (in quanto produzioni dell’intelletto filosofico e non di un’autentica ricerca sperimentale), offre la chiave della risoluzione di ogni contraddizione attraverso l’esposizione di quella Coscienza-Forza che è, essenzialmente, un potere di coscienza SOPRAmentale (vale a dire, al di sopra della mente). Così infatti apre il quarto capitolo, entrando nel vivo dell’argomento e dando inizio alla propria esaurientissima disamina:

«Dal momento che abbiamo ammesso sia il diritto del puro Spirito di manifestare in noi la propria assoluta libertà, sia il diritto della Materia universale di essere la forma e la condizione della nostra manifestazione, dobbiamo ora trovare una verità che possa interamente riconciliare questi antagonisti accordando a entrambi la loro debita parte nella vita e la loro debita giustificazione nel pensiero, senza privarli dei loro rispettivi diritti, senza negare all’uno o all’altra la verità suprema dalla quale perfino i loro errori, perfino l’intransigenza delle loro esagerazioni, traggono una forza così costante.

Da qui si innalza la sua superba architettura filosofica. Ovviamente, per approfondire la mirabile conciliazione offerta da Sri Aurobindo, occorre leggere per intero i suoi scritti, a partire da questo fondamentale The Life Divine. Nella nostra collana PANDETTE (consultabile in rete) abbiamo creato una dispensa contenente una serie di schede su questo testo fondamentale. Al seguente link, invece, è possibile affrontare un approfondimento su una questione terminologica di un certo rilievo —

CONSIDERAZIONI SU LA VITA DIVINA