LA CICALA E LA FORMICA

(a cura del centro studi arya)

Chi non conosce la celebre fiaba, tramandataci da Esòpo con il titolo La cicala e le formiche? Una favoletta apparentemente innocua, la cui ‘morale’ però rispecchia in buona parte gli indirizzi operativi e le tendenze volitive che l’attuale civiltà ha perseguito con ostinato zelo, in modo assai più caparbio di quanto l’antico mondo greco, da cui la favola proviene, abbia osato fare.
Ricordiamola, innanzitutto — è talmente stringata che vale la pena di offrirne qui la sua traduzione:
«In una giornata d’inverno le formiche stavano facendo seccare il loro grano che s’era bagnato. Una cicala affamata venne a chiedere loro un po’ di cibo. E quelle le dissero: “Perché non hai fatto provvista anche tu, quest’estate?”. “Non avevo tempo, — rispose lei — dovevo cantare le mie melodiose canzoni”. “E allora balla, adesso che è inverno, se d’estate hai cantato!”, le dissero ridendo le formiche».
A ben vedere, questa favola è di una crudeltà e di un cinismo inauditi! Eppure, purtroppo, riflette piuttosto bene l’atteggiamento prevalente degli ultimi duemilacinquecento anni di storia nell’area del Mediterraneo e, oggi, con l’avvento del mercato globale, più o meno in tutto il mondo.
Gianni Rodari, in una breve e maliziosa filastrocca per bambini dal titolo Alla formica, sintetizzò in maniera semplice ed efficace l’atteggiamento gretto e meschino della formica — con la seguente quartina di versi:
Chiedo scusa alla favola antica,
se non mi piace l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende, regala.

Noi, oggi, viviamo in un mondo stupidamente legato all’acquisizione di pane e di un po’ di circo (il romano panem et circenses), mentre tutto ciò che conferisce davvero godimento e soddisfazione alla nostra esistenza, come il senso della bellezza (sintetizzato qui nell’atteggiamento della cicala), o della solidarietà (che l’avara formica pare non conoscere del tutto), vengono scarsamente presi in considerazione — talvolta sono addirittura banditi, ripudiati come inutili escrescenze da sognatori o da poveri illusi.
Eppure, la ricerca della bellezza e il perseguimento della solidarietà sono — o dovrebbero essere — valori fondamentali nell’umana esistenza. Anzi, possiamo affermare, senza paura di essere contraddetti, che l’essere umano diventa davvero tale quando incomincia a sentire dentro di sé un decisivo anelito verso la bellezza e un sentimento attivo di compassione verso gli altri. Si tratta infatti delle due sfere che pertengono più strettamente all’uomo quale animale pensante, dotato di ragione: «l’essere estetico e l’essere etico, la ricerca della Bellezza e la ricerca del Bene. La ricerca della bellezza da parte dell’uomo raggiunge la sua più intensa e soddisfacente espressione nelle grandi arti creative, nella poesia, nella pittura, nella scultura e nell’architettura; ma non c’è, in realtà, alcuna attività della natura o della vita umana da cui la bellezza debba essere esclusa — sempre a patto che la intendiamo nel suo senso più ampio e anche più vero. Apprezzare, in modo completo e universale, la bellezza, e rendere totalmente bella la nostra vita e il nostro essere è certamente una qualità necessaria alla perfezione dell’individuo e della società» (Sri Aurobindo, The Human Cycle).
Al tempo stesso, la ricerca del Bene e della Bellezza contribuiscono in misura determinante a superare i limiti dell’uomo razionale, giacché «la creazione di bellezza nella poesia e nell’arte non cade né sotto la sovranità della ragione, né rientra nella sua sfera. L’intelletto non è il poeta, l’artista, il creatore dentro di noi; la creazione giunge per un afflusso sovrarazionale di luce e di potere che deve sempre operare, per raggiungere il meglio, attraverso visioni e ispirazioni. Essa può usare l’intelletto per alcune sue operazioni, ma quanto più si assoggetta all’intelletto tanto più perde in potere e in forza di visione, e diminuisce lo splendore e la verità della bellezza che crea. L’intelletto può controllare l’afflusso, moderare e reprimere il divino entusiasmo della creazione e costringerla a obbedire alla prudenza dei suoi dettami, ma nel far ciò abbassa l’opera al suo livello inferiore, e tale svilimento è proporzionato all’interferenza intellettuale. Di per sé, infatti, l’intelligenza può solo acquisire talento, sia pure un alto talento, o addirittura eccelso se sufficientemente aiutato dall’alto. Il genio, che è il vero creatore, è sempre sovrarazionale per la sua natura e i suoi strumenti, anche quando sembra che compia il lavoro della ragione; è più se stesso, più esaltato nel lavoro, più sostenuto nella potenza, profondità, altezza e bellezza del suo operato quando è meno toccato dalla mera intellettualità, meno sottoposto al suo controllo, e quando meno cade dalle sue altezze di visione e ispirazione per affidarsi al processo, sempre meccanico, della costruzione intellettuale. La creazione artistica che accetti i canoni della ragione e operi entro i limiti da essa imposti può anche essere grande, bella e poderosa, perché il genio può conservare la sua potenza anche quando lavora in ceppi e si rifiuta di dispiegare tutte le sue risorse, ma quando procede per mezzo dell’intelletto esso costruisce, non crea. Può costruire bene e con grande e irreprensibile abilità tecnica, ma il suo successo è formale e non appartiene allo spirito; è un successo di tecnica e non l’espressione dell’indistruttibile verità della bellezza colta nella sua intima realtà, nella sua divina beatitudine, nel suo richiamo a una fonte suprema di estasi, Ananda» (Sri Aurobindo, ibidem).
Similmente, la ricerca della solidarietà, dell’amore disinteressato verso gli altri, del bene di tutte le creature, stimola e accresce in noi la sensazione dell’unità spirituale dell’intero esistente, arrivando a farci percepire — in ultimo — quanto gli altri siano in realtà parti di noi stessi, del nostro vero Essere. Anche in questo caso, avviene un passaggio, un superamento degli umani limiti, da una concezione morale tipicamente umana e quindi limitata, a una concezione spirituale che vede ogni cosa come il dispiegamento dell’unica Esistenza-Coscienza-Beatitudine che noi tutti siamo nella nostra più essenziale e profonda realtà.
«La ricerca della bellezza è soltanto, agli inizi, un soddisfacimento procurato dalla bellezza della forma, quella bellezza che funge da richiamo ai sensi fisici e alle impressioni vitali, agli impulsi e ai desiderî. È soltanto più tardi che diventa un soddisfacimento procurato dalla bellezza delle idee percepite, delle emozioni suscitate, e dalla percezione di un procedimento perfetto e di un’armoniosa combinazione. Dietro tutto ciò, l’anima della bellezza in noi desidera il contatto, la rivelazione, l’esaltante felicità di una bellezza assoluta in tutte le cose che sente presenti (ma che né i sensi e gli istinti di per sé possono dare, pur potendo esserne i canali — poiché essa è sovrasensuale — né la ragione e l’intelligenza, pur essendo esse stesse un canale — poiché essa è sovrarazionale, sovraintellettuale), e che l’anima stessa cerca di raggiungere attraverso tutti questi veli. Quando può ottenere il tocco di questa bellezza universale, assoluta, di quest’anima della bellezza, di questo senso della sua rivelazione in ogni più piccola cosa come nella più grande, nella bellezza di un fiore, di una forma, nella bellezza e la forza di un personaggio, di un’azione, di un evento, di una vita umana, di un’idea, di un tocco di pennello o di scalpello o di un lampo della mente, nei colori di un tramonto o la maestosità della tempesta, allora il senso della bellezza in noi è veramente, potentemente e pienamente soddisfatto. …Quando, appagati nel nostro senso e nella nostra conoscenza crescenti della bellezza e del godimento della bellezza e nel nostro potere della bellezza, siamo in grado di identificarci nell’anima con questo Assoluto e questo Divino in tutte le forme e attività del mondo e formare un’immagine della nostra vita interiore ed esteriore sulla più alta immagine che possiamo percepire e rappresentare della Bellezza assoluta, allora l’essere estetico in noi, che è nato a questo fine, ha realizzato se stesso e si è elevato al suo divino compimento» (Sri Aurobindo, ib.).
Come per il senso estetico, anche il senso etico — quando non si chiude in un perverso compiacimento di sé — deve portare l’uomo a superare se stesso, a trovare il proprio vero Sé. «I nostri impulsi e le nostre attività di carattere etico cominciano, come tutto il resto, nell’infrarazionale e nel subconscio. Essi sorgono come istinto del giusto, istinto di obbedienza a una legge non compresa, istinto di abnegazione nel lavoro, istinto di sacrificio, istinto d’amore, di subordinazione e di solidarietà con gli altri. All’inizio l’uomo obbedisce alla legge senza domandarsi il perché; non cerca per essa una sanzione nella ragione. Il suo primo pensiero è che si tratta di una legge creata da potenze superiori a lui e alla sua specie, e dice con l’antico poeta di non sapere come scaturirono queste leggi, ma di sapere solo che ci sono, che perdurano e che non possono essere impunemente violate. Ciò che cercano gli istinti e gli impulsi, si sforza di farcelo capire la ragione, in modo che la volontà possa arrivare a usare intelligentemente gli impulsi etici e trasformare gli istinti in idee etiche. Essa corregge i rozzi e spesso errati affronti fatti dall’uomo all’istinto etico, separa e purifica le sue confuse associazioni, indica nel modo migliore le relazioni fra i suoi ideali morali spesso in contrasto, cerca un arbitrato o un compromesso fra le loro pretese in conflitto, e predispone un sistema articolato di regole di condotta etica. Tutto questo va bene, è uno stadio necessario del nostro progresso, ma alla fine queste idee etiche e questa intelligente volontà etica che la ragione ha cercato di abituare al suo controllo, sfuggono alla sua presa e s’innalzano fuori della sua giurisdizione. Esse hanno sempre questa innata tendenza, anche quando sopportano le sue redini.
Infatti, l’essere etico rappresenta, come le altre parti dell’essere, una crescita e una ricerca tesa all’assoluto, al divino, che si possono raggiungere con sicurezza solo nel sovrarazionale. Esso cerca una purezza assoluta, un diritto assoluto, una verità assoluta, una forza assoluta, un amore e una dedizione assoluti, ed è più soddisfatto quando li può ottenere in misura assoluta, senza limiti o freni o compromessi, divinamente, infinitamente, in una sorta di divina trasfigurazione del proprio essere. …Allora non sono le sue azioni che determinano il valore della sua natura ma la sua natura che dà valore alle sue azioni; allora egli non è più faticosamente virtuoso, artificiosamente morale, ma naturalmente divino. Egli si realizza e si completa quando non è guidato o mosso dagli impulsi infrarazionali o dall’intelligenza e volontà razionali, ma ispirato e pilotato dalla conoscenza e volontà divine diventate coscienti nella sua natura. Ma ciò è possibile soltanto se, anzitutto, la verità di questa conoscenza e volontà divine si trasmette alla sua natura tramite la mente intuitiva, a mano a mano che essa si purifica dall’invasione dell’egoismo, dell’interesse, del desiderio, della passione e di tutti i generi di attaccamento, e infine tramite la luce e il potere sovrarazionali, non più trasmessi ma presenti e in possesso del suo essere… Perciò per il culto del Bene è come per il culto della Bellezza e quello della spiritualità. Già nei suoi primi istinti esso è un’oscura aspirazione al divino e all’assoluto; mira ad un soddisfacimento assoluto, trova la sua luce e i suoi mezzi più alti in qualcosa al di là della ragione, si completa solo quando trova Dio, quando crea nell’uomo qualche immagine della Realtà divina» (Sri Aurobindo, ib.)