DIVINITÀ,
IL TUO NOME È DONNA

ETERNI VALORI DELLA SPIRITUALITÀ… AL FEMMINILE

di Mario Gregori
(per gentile concessione dell’Autore)
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«Siam venuti a cantar maggio oh la-i la-no...» così inizia un grazioso duetto lirico di data recente [1], ma dal vago sapore rinascimentale, in emulazione dell’antica e suggestiva usanza popolare delle maggiolate che, grazie anche al Poliziano [2], era assurta agli onori letterari. Questa usanza era solo uno degli aspetti rilevanti del rifiorire della cultura, dopo una lunga quiescenza: un’autentica primavera culturale. Non è dunque casuale il riferimento alla primavera e al suo periodo più fecondo, Maggio, mese dedicato a Maia — dalla quale prende nome (lat. maius, gr. maïos) —, emanazione della divinità agreste Demetra, conosciuta anche come Cerere, personificazione divina della fecondità e della maternità; questo aspetto femminile della divinità, considerato erroneamente come troppo profano, fu bollato come “pagano” e quindi rigorosamente rifiutato da un cristianesimo medievale dai toni austeri e apocalittici, suggeriti anche dagli oscuri eventi storici che avevano condizionato la cultura prerinascimentale.
Come risvegliate dal lungo oblio dell’austera cultura medievale, Flora, Venere, Pomona, Artemide, ninfe e baccanti, eterne manifestazioni archetipiche della prorompente energia vitale femminile, si riaffacciano dal mondo classico della cultura greco-romana, proponendo nuovi ideali di grazia, bellezza e prosperità femminile, che plasmeranno in modo significativo la cultura artistica, letteraria e soprattutto religiosa. Proprio nell’arte sacra un simile rinnovamento si fa notare, con l’abbandono degli austeri e rigidi canoni dell’iconografia bizantina, per ricorrere a quei modelli figurativi di tradizione ellenistico-romana, prima accanitamente respinti come eterodossi, cioè non in armonia con l’ideale ascetico di vita allora propugnato. In omaggio ai nuovi canoni dell’umanesimo, nelle immagini della Madre di Cristo prendono forma concreta, pulsante di vita, le rivisitazioni delle immagini classiche: della Mater Matuta di italica memoria, come Madonna del Parto, ma anche di Venere madre, di Demetra, di Maia ed altre ipostasi classiche della Grande Madre. Finanche il mese stesso di maggio viene dalla Chiesa romana [3] dedicato al culto specifico della Madonna. Anche la Festa della Mamma, attualmente ricorrente in maggio — seppur ridotta ormai in termini quasi esclusivamente consumistici — rientra nell’ottica del culto della Dea Madre; poco poi importa se si tratti della Madre di Cristo o di qualsiasi altra manifestazione di divina maternità.
Come si è dimostrato, l’aspetto archetipico dell’energia femminile, più forte di qualsiasi velleità oscurantista, ritorna sempre in superficie. Infatti, analizzando attentamente le varie cosmogonie, risulta con evidenza schiacciante il contributo fattivo dell’energia femminile primordiale: secondo la visione taoista, è il principio yin (opposto e complementare di yang, principio maschile). Nella cultura vedica, essenza delle varie tradizioni induiste, questo principio, definito come energia femminile divina o Shakti [4], è alla base del processo creativo cosmogonico, ma anche della saggezza divina e si manifesta nella forma di dee come Sarasvatî (Eloquente) o Gâyatrî devî; quest’ultima, personificazione femminile di un inno vedico [5], è presentata come l’essenza dei Veda, cioè di tutta la saggezza. Come energia di saggezza divina, troviamo la Shakti in varie altre ipostasi, associata nella “unio mystica” (Maithuna o Yab-yum), congiunta indissolubilmente al consorte, in un amplesso dalle articolate implicazioni simboliche.
Il significato primario di queste immagini, ovviamente, non consiste nell’esaltazione di una visione edonistica, camuffata sotto una maschera spirituale (come molti ancora credono), bensì nella rappresentazione simbolica dell’essenza degli insegnamenti tantrici. Il risultato è quello di unificare nella pratica le due energie (maschile e femminile), per raggiungere quello stato primordiale di non concettualizzazione, non contaminata da dualità o, per dirla in termini cristiani, per ritornare allo stato di grazia primordiale.
Il ruolo di Shakti o Prakriti — sua manifestazione nella sfera materiale a livello primordiale — nella pratica yogica varia secondo le scuole e le tradizioni tantriche. Se il sistema Samkhya [6] la considera come energia statica e passiva, le tradizioni preariane dell’India, le attribuiscono un ruolo dinamico ed attivo. Conseguentemente all’influenza dell’una o dell’altra tradizione, enfatizzando o meno l’aspetto dinamico dell’energia femminile, abbiamo una suddivisione delle tradizioni tantriche: il Tantra della mano destra enfatizza l’aspetto dinamico dell’elemento maschile, mentre il Tantra della mano sinistra attribuisce la dinamicità all’elemento femminile. Un’analoga suddivisione esiste per la tradizione tantrica buddhista, con il Tantra Padre ed il Tantra Madre. Nell’ottica del Tantra Padre, l’energia maschile è identificata col metodo, grazie al quale la saggezza entra in azione. Infatti l’energia femminile di saggezza o Prajña [7] è di per sè completa, ma allo stato latente e statico, mentre il metodo (Upaya), è energia dinamica che, incorporata mediante apposite pratiche — che variano a seconda delle tradizioni e delle scuole —, opera la trasformazione alchemica della saggezza in consapevolezza; proprio questa consapevolezza controlla e bilancia l’energia femminile, rendendola positivamente attiva. Al contrario, la profonda energia femminile, controllando e bilanciando quella maschile, ne domina la capacità dinamica e la arricchisce con la profonda saggezza, avviandola allo stato di consapevolezza primordiale. Questo è appunto l’obbiettivo del Tantra Madre, che, grazie all’uso dell’energia femminile, è quello che permette le realizzazioni più rapide. In ogni caso, indipendentemente dal tipo di tradizione, induista, jainista o buddhista che sia, il contributo dell’energia femminile è un elemento irrinunciabile; resta dunque sempre valido l’assioma shàiva, secondo cui shivaha shaktivihînaha shavaha: “Shiva, senza Shakti, è un cadavere”; tradotto in termini buddhisti, la pratica di Mahakaruna (Grande Misericordia), e la motivazione di Bodhicitta (Mente dell’Illuminazione), sono sì Upâya, il Metodo per eccellenza, ma, senza Prajñâ, la corretta consapevolezza di Shunyatà, non solo mancano di efficacia, ma rischiano addirittura di incatenare maggiormente al samsara l’incauto praticante. Questa energia tantrica di consapevolezza della Vacuità è la Prajñâ-pâramitâ, ipostatizzata nelle inseparabili Consorti tantriche delle varie divinità di meditazione. L’entità femminile che in sé manifesta questa divina consapevolezza, in sanscrito è chiamata Dâkinî: la sacrificante; il riferimento alla distruzione delle concezioni errate, nell’iconografia, è reso ancor più esplicito dall’utensile che tiene nella mano destra: il kartri, coltello ricurvo utilizzato per tagliare e sminuzzare le vittime sacrificali o, in caso di funerali, i cadaveri. Più poetico è il termine tibetano kadroma: colei che danza in cielo; il riferimento più specifico allo spazio designa colei che agisce nella sfera della vacuità. Quanto all’idea della danza come espressione di azione, il concetto è abbastanza comune già nella tradizione vedica. Il fatto che l’universo manifesto sia mantenuto in vita dalla danza di Shiva [8], è riconosciuto anche al di fuori dello shivaismo. È anche ricorrente, nella letteratura, l’espressione “danza delle apparenze illusorie” con evidente allusione alla sfera del manifesto come specifica manifestazione di Mâyâ, l’energia materiale che impedisce di percepire i fenomeni come realmente sono.
L’ottavo canto del Bhâgavata Purânâ (cap. 19) ci presenta due graziosi esempi di questa danza ammaliatrice, narrando, nel IX capitolo, lo stratagemma grazie al quale Mohinî — manifestazione della Yoga-mâyâ (energia inseparabile) di Vìshnu — seduce gli Asura [9], per riprendere dalle loro grinfie il vaso di nettare dell’immortalità, che questi avevano rubato dalle mani del giovane Dhanvantari [10]. Il secondo e più significativo esempio, nel XII capitolo, ci ripropone la stessa Mohinî che gioca un simpatico scherzetto a Shiva, per indurlo a meditare sulle illusioni della natura materiale e sulla necessità del controllo dei sensi. Viene spontaneo il riferimento alle biografie dei mahâsiddha come Lûyipa, Kukkuripa ed altri, il cui cammino spirituale ha subito la svolta decisiva proprio grazie all’intervento di una figura femminile, in realtà una dâkinî, o addirittura, come nel caso di Nâropa, Vajravârahî in persona.
Nel novero dei mahâsiddha, troviamo anche delle yoghinî, come Manibhadrâ, Mekhalâ, Kanakhalâ e Lakshmînkarâ, che spiccano, come modelli di seria determinazione nella pratica; non mancano esempi anche fuori dell’ambiente indiano, come Nangsa Obum, Jomo Memo e Macig Labdron, conosciuta come la Dâkinî iniziatrice del lignaggio della pratica del Ciöd [11].

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Tra le numerose manifestazioni archetipiche dell’energia femminile Târâ occupa sicuramente un posto di particolare rilievo, dimostrando come proprio in qualità di donna — nonostante le difficoltà derivanti da un sistema patriarcale —, sia possibile raggiungere le più alte vette della spiritualità, entrando a pieno diritto nel pantheon Vajrayana, non solo come archetipo femminile della Compassione, ma anche come una delle divinità più potenti, in grado di concedere ai suoi devoti le più alte realizzazioni, sia spirituali che materiali. Viene perciò invocata per le necessità più disparate, e si manifesta in svariate ipostasi pacifiche o irate. Oltre alla principale manifestazione, di colore verde, che concede qualsiasi realizzazione e che riassume in sé tutte le altre, abbiamo, ad esempio Târâ Gialla, che incrementa la prosperità economica o Târâ Bianca, che sconfigge tutti i demoni e le interferenze alla longevità [12]. Non a caso il nome Târâ, oltre che Stella significa Liberatrice: come manifestazione della Suprema Compassione è sollecita ad aiutare tutti gli esseri viventi, che la invocano con fede, a liberarsi dalle miserie del Samsara (ciclo delle esistenze): si può ravvisare una similitudine con la Madre di Cristo, soprattutto con il ruolo di “corredentrice” riconosciutole dal papa Giovanni Paolo I. Anche l’epiteto “Invincibile Stratega”, usato nell’inno Acàtisto [13] non è per niente estraneo alla qualità distruttrice dell’eroe dei demoni, attribuita a uno dei molteplici aspetti di Târâ.
Non dimentichiamo che il nome Târâ appartiene anche ad una delle più importanti manifestazione della Shakti [14]: Durgâ, anch’essa con svariate ipostasi, dalla materna Annapûrnâ (o Annapatnî, premurosa nutrice), alla protettrice Kâlî (la nera), terrore di ogni nemico della dottrina, dotata del pieno controllo sulle energie della materia, e viene anche chiamata Shri Devî (Dea Sublime): con lo stesso nome (tradotto pari pari in Palden Lhamo) e con gli stessi requisiti il buddismo tibetano l’ha inserita nel proprio pantheon, come manifestazione irata di Târâ e divinità tutelare di Lhasa. Come nutrice troviamo un equivalente di Annapûrnâ nella dea Cibele o Alma Mater e anche nell’iconografia della Madonna del latte. Anche Kâlî, che danza sul corpo di Shiva, non ricorda forse l’immagine apocalittica [15] della donna con la luna sotto i piedi e quella della Madonna che calpesta il serpente? La luna è collegata al culto shàiva ed in genere rappresenta la potenzialità delle cose di cambiare secondo il ritmo delle lunazioni; la figura del serpente, e soprattutto dei Nâga [16], collegata particolarmente allo shivaismo (ma anche all’induismo in genere e al buddhismo), in stretto rapporto con la fertilità (per l’affinità con l’acqua) potrebbe essere intesa come manifestazione incontrollabile dell’energia materiale. Ne consegue che l’immagine di un’Eva che cede alla tentazione del serpente potrebbe essere inteso come un effetto del cedimento agli impulsi della sfera materiale, mentre l’atto del calpestare il serpente indica il controllo della materia e della fertilità.
Il pantheon delle divinità femminili, che trovano rispondenza nella Grande Madre e, di riflesso quindi nella Madre di Cristo, è ben affollato: potremmo continuare l’analisi comparata per libri e libri, estendendola anche ai pantheon di altre religioni, trovando altre stupefacenti corrispondenze di elementi tra il culto della Madonna e le varie Dee Madri.
Alla luce di quanto finora esaminato sembra ora evidente la validità della parafrasi con la quale mi sono permesso di ridimensionare la celebre frase amletica [17].
Anche il significato originario latino del nome “donna”, signora, dominatrice, sembra calzare a pennello, se la vediamo sotto l’ottica di colei che domina sulla natura materiale, come era in un’aurea epoca primordiale e come sarebbe, se il progressivo degrado dei valori morali e spirituali non avesse offuscato molte delle sue potenzialità. Già nella Bhagavad Gîtâ (I.40) è detto che «quando l’irreligione predomina in una famiglia... le donne si corrompono e dalla degradazione delle donne... nasce una prole indesiderata». In effetti, l’apporto della figura femminile nell’educazione e nell’allevamento dei figli è un elemento rilevante e, quando viene a mancare, i risultati sono disastrosi. Un simile degrado si deve anche alla scarsa considerazione in cui una società di tipo patriarcale ha relegato la donna, impedendole di affermarsi in quanto donna, con le sue eccelse qualità interiori. E così la donna avendo perso la coscienza dei suoi valori più autentici, ha cominciato ad imitare schemi e modelli maschili, come lo smodato spirito di competizione, l’aggressività, la prevaricazione ed altri modelli che, già negativi nell’individuo maschile, sotto l’effetto della potentissima energia femminile, sbilanciata e non controllata, assumono una forza distruttiva, generatrice di conflitti esteriori e interiori, i cui effetti negativi ricadono principalmente sulla donna che, a causa della sua marcata sensibilità, ne risente profondamente.
È evidente che molto ancora resterà da percorrere sull’arduo cammino dell’emancipazione, finché la donna non prenderà coscienza delle sue qualità interiori, grazie alle quali capirà che essere donna non è un impedimento, ma anzi un vantaggio. I punti di riferimento e i modelli positivi, come abbiamo visto non mancano: non resta che provare.
A titolo di buon auspicio e di incoraggiamento alle lettrici (e di spunto meditativo per i lettori), ritengo più che opportuno concludere con una citazione poetica dantesca che è tutto un programma:
«Donna, se’ tanto grande e tanto vali
che qual vuol grazia e a te non ricorre
sua disianza vuol volar senz’ali.» [18].

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NOTE:

1 - da: "Spoesie" (sequenza di testi e brani musicali), testo e musica di Tiziana Fumagalli - Milano, 1985.

2 - Angelo Ambrogini, detto il Poliziano (1454-1494); è nota, fra le altre, la poesia “Bentornato Maggio”.

3 - Le chiese orientali, in base al calendario giuliano, seguono date diverse.

4 - Il termine sanscrito Shakti indica in genere l’energia femminile divina e, in un contesto tantrico induista, la consorte mistica o paredra della divinità. In un contesto tantrico buddhista di solito si preferisce usare il termine Prajña (Saggezza)o Karmamudrâ (consorte d’azione).

5 - Come inno vedico, la Gâyatrî è un antico metro di ventiquattro sillabe; come divinità, è considerata manifestazione di Sarasvatî, dea della saggezza e della fertilità, consorte di Brahma e madre dei quattro Veda.

6 - Cfr I Vittoriosi Trascendenti, parte I, inserto a Occidente Buddhista, nr 4, giugno 1996, passim.

7 - Si legge pràgghia.

8 - Sempre danzando lo stesso Shiva porrà fine alla manifestazione cosmica. Nel suo livello materiale di manifestazione (aparanara o pashu), è considerato come espressione del Tama-guna (ignoranza) aspetto della forza maschile, potenzialmente distruttrice e di difficile controllo.

9 - Esseri demoniaci, in perenne lotta con gli esseri celesti o Devah.

10 - Ipostasi di Vìshnu, medico dei deva, viene raffigurato con il vaso del nettare dell’immortalità. Volendo fare un riferimento iconografico parallelo in ambito buddhista, potrebbe evocare le figure del Buddha Amitayus, e del Bhai-shajaguru, attinenti rispettivamente alla longevità e alla medicina.

11 - Rituale esorcistico, mirante a recidere il demone del proprio ego.

12 - Giova sempre ricordare che le richieste di soddisfazione di esigenze materiali, andrebbero finalizzate ad una più efficace pratica del Dharma.

13 - “Inno Acatisto alla Madre di Dio” composto dal melodo Romano di Èmesa.

14 - Cioè dell’energia femminile divina.

15 - Apocalisse 12-1,6.

16 - Creature serpentine appartenenti al mondo degli inferi, con il potere di contagiare gli esseri umani con malattie.

17 - Amleto (atto I scena 2).

18 - Divina Commedia, Par. XXXIII, 13-15: inno di S. Bernardo.