LA RIVOLTA DEGLI ANGELI

(a cura della redazione di arianuova.org)

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“La Révolte des Anges” è uno dei più bei romanzi della letteratura del XX secolo. Il suo Autore, Anatole France, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1921, è uno degli spiriti più arguti d’Europa, definito “il più classico dei grandi scrittori moderni”. La sua penetrante ironia, equilibrata sulle due ali di simpatia e arguzia, s’invola verso i massimi vertici conosciuti dell’umorismo.
Per anni abbiamo cercato una qualche traduzione italiana di questo capolavoro. Ma la miope e provincialissima cultura italiana, troppo a lungo dominata dal bigottismo della chiesa cattolica, non ha ritenuto opportuno dare spazio a quest’opera in cui l’audacia blasfema raggiunge un assoluto di indubbia forza espressivo-visionaria. Nella prima metà del 2006 il traduttore Luigi De Mauri ha finalmente trafitto il sortilegio irritante dell'assenza con l'inchiostro impertinente della presenza.
L’azione del romanzo si svolge a Parigi, poco prima dello scoppio della Grande Guerra. Anatole France ha immaginato che alcuni tra gli angeli caduti, ribellandosi nuovamente ai poteri del Cielo, decidono di preparare sulla terra una vasta insurrezione allo scopo di ribaltare la situazione, restituendo a Lucifero il suo vero posto e detronizzando Geova. Ma quando gli angeli ribelli sono sul punto di ottenere la vittoria, lo stesso Lucifero chiede che il combattimento venga sospeso: egli, infatti, sceglie di rinunciare alla vittoria e di restare all’Opposizione, per non diventare vittima dell’inevitabile corruzione che il Potere porta con sé.
La perenne attualità di questo tema, insieme alla fattura mirabile ed estremamente moderna del tessuto narrativo, conferiscono al romanzo un valore imperituro.
Offriamo qui la nostra traduzione dell’ultimo capitolo del romanzo.


Avendo asceso le sette alte terrazze che si inerpicano dalla riva del Gange fino ai templi avvolti dalle liane, i cinque angeli raggiunsero da entrate nascoste il giardino selvatico pieno di grappoli profumati e di scimmie ridenti, al fondo del quale trovarono Colui che erano venuti a cercare. L’arcangelo stava reclinato su dei cuscini neri bordati di fiamme d’oro. Sotto i suoi piedi riposavano alcuni leoni e gazzelle. Avviticchiati agli alberi, alcuni serpenti domestici volgevano verso di lui i loro occhi amichevoli. Alla vista dei visitatori angelici, il suo volto si tinse di malinconia. Già altre volte, con la fronte coronata di uva e il suo scettro di pampini, intento a istruire e consolare gli uomini, il suo cuore si era gonfiato di tristezza; ma dai tempi della sua caduta gloriosa, mai il suo bel volto aveva espresso tanto dolore e tanta angoscia.
Zita gli riferì degli stendardi neri raccolti in grande quantità in tutti i deserti di questo globo, e della liberazione meditata e preparata nelle province del cielo, laddove si era già fomentata la prima rivolta. E aggiunse: «Principe, il tuo esercito ti aspetta. Vieni a condurlo verso la vittoria».
«Amici — rispose il grande arcangelo —, mi era già noto il motivo della vostra visita. Dei cesti di frutta e delle arnie di miele vi attendono all’ombra di quel grande albero. Il sole sta per tramontare sopra le acque rosate del fiume sacro. Quando vi sarete nutriti, dormirete piacevolmente in questo giardino ove regnano l’intelligenza e la voluttà da quando ho cacciato via lo spirito del vecchio Demiurgo. Domani, vi darò la mia risposta».
La notte stendeva sui giardini i suoi veli blu. E Lucifero si addormentò, e ricevette un sogno, e in questo sogno, volava al di sopra della terra e la vide coperta di angeli ribelli, splendidi come gli Dei e i cui occhi emettevano raggi di luce. E, da un polo all’altro, un solo grido, formato da una miriade di voci, saliva verso di lui, carico di speranza e d’amore. E Satana disse:
«Andiamo! Staniamo l’antico avversario nella sua alta dimora».
E condusse attraverso le regioni celesti l’esercito sterminato degli angeli. Nel frattempo, egli veniva istruito di quanto avveniva in quel momento nella cittadella celeste: quando la notizia di questa seconda rivolta lo raggiunse, il Padre disse al Figlio: «L’irriducibile nemico ci attacca un’altra volta. Prepariamoci e approntiamo la nostra difesa, per non rischiare di perdere la nostra alta dimora».
E il Figlio, consustanziale al Padre, rispose: «Noi trionferemo sotto il medesimo segno che donò la vittoria a Costantino».
L’indignazione esplose sulla Montagna del Signore. I fedeli Serafini si prepararono immediatamente a combattere i ribelli. La collera accesa in tutti i cuori infiammò ogni contrada. Nessuno di loro dubitava della vittoria, ma si lamentavano per il tradimento, e già reclamavano per le spie e gli allarmisti le tenebre eterne. Si levarono delle grida, e il canto degli antichi inni, e laude al Signore delle Nazioni. Si bevve il vino mistico. Ma il coraggio, eccessivamente gonfiato, rischiava di scoppiare per aria, sicché una segreta inquietudine si insinuò nel fondo cupo delle anime. L’arcangelo Michele assunse a quel punto il comando supremo — rassicurò gli spiriti con la sua calma; il suo volto, dal quale traspariva la sua anima, esprimeva ora lo sprezzo del pericolo. Ai suoi ordini, i comandanti delle folgori, i Cherubini, infiacchiti dalla lunga pace, percorsero con passo appesantito i baluardi della Montagna Sacra e, inviando sulle moltitudini splendenti di Geova il tardo sguardo dei loro occhi bovini, si adoperavano per disporre in posizione le armate divine. Dopo avere ispezionato le difese, comunicarono all’Altissimo che tutto era pronto. Si discusse quindi del piano d’azione. L’arcangelo Michele propose l’offensiva; ciò costituiva, egli diceva utilizzando un linguaggio militare consumato, la regola suprema — attaccare o essere attaccati. Non c’è via di mezzo. D’altronde, egli aggiunse, questo atteggiamento offensivo era particolarmente appropriato per i Troni e le Dominazioni.
Allorché il nemico venne avvistato, l’arcangelo Michele gli scagliò contro tre eserciti comandati dagli arcangeli Uriele, Raffaele e Gabriele. Gli stendardi dai colori dell’Oriente si spiegarono nelle campagne eteree, e gli strali piovvero sul selciato stellare. Per tre giorni e tre notti s’ignorò sul Monte di Geova la sorte di questi eserciti magnifici e tremendi. All’alba del quarto giorno, le notizie erano vaghe e confuse. Si parlava di vittorie imprecise e di trionfi contraddittori. I resoconti gloriosi si affastellavano e crollavano nel giro di poche ore. Gli strali dell’arcangelo Raffaele, lanciati sui ribelli, avevano, si diceva, decimato intere squadriglie. Le truppe comandate dall’impura Zita erano state sepolte — affermavano i bene informati — sotto la bufera di una tempesta di fuoco. Si raccontava anche di come il feroce Istar fosse precipitato nei baratri e messo col culo per aria in maniera talmente brusca che le blasfemie vomitate dalla sua bocca si trasformarono in una furiosa scorreggia. Si sperava perfino che Lucifero, legato con catene di diamante, fosse stato nuovamente gettato nell’abisso. Ciò nonostante, i comandanti dei tre eserciti non avevano ancora inviato alcun messaggio. Ai clamori di gloria si mischiavano dei rumori sordi che facevano temere una ritirata precipitosa. Voci insolenti insinuavano addirittura che uno spirito della più bassa categoria, un angelo guardiano, l’infimo Arcade, avesse sopraffatto l’esercito risplendente dei tre sommi arcangeli.
Si vociferò anche di una defezione di massa nel cielo settentrionale, da dove era scoppiata la rivolta prima dell’inizio dei tempi, e alcuni avevano perfino visto nere folle di angeli empi che andavano a raggiungere gli eserciti ribelli formatisi sulla terra. Ma i santi cittadini non prestarono orecchio a queste dicerie e diedero piuttosto rilevanza alle notizie di vittoria che passavano di bocca in bocca affermandosi e confermandosi. Le alte sfere fecero risuonare cantici di giubilo; i Serafini celebrarono sull’arpa e sul salterio il Sabaoth. Le voci degli eletti si unirono a quelle degli angeli per glorificare l’Invisibile. Al pensiero della carneficina perpetrata dai ministri della santa collera, sospiri di felicità ascesero dalla Gerusalemme celeste fino al Dio supremo. Ma la letizia dei Beati, avendo già raggiunto il suo acme, non poté crescere ulteriormente, e così l’eccesso di felicità li rese totalmente insensibili.
I cantici non erano ancora cessati quando le guardie che vegliavano sui contrafforti segnalarono i primi fuggiaschi dell’esercito divino: alcuni serafini un po’ spennacchiati che volavano in disordine, e cherubini resi informi che arrancavano su tre piedi. Con sguardo impassibile, il principe dei guerrieri, l’arcangelo Michele, calcolò le dimensioni del disastro e la sua intelligenza luminosa ne penetrò le cause. Gli eserciti del Dio unico avevano attaccato; ma, per una di quelle fatalità che, in guerra, mandano in aria i piani dei più abili generali, anche i nemici avevano attaccato, e se ne potevano vedere gli effetti. Non appena le porte della cittadella celeste si aprirono per ricevere i gloriosi e informi avanzi dei tre eserciti, una pioggia di fuoco prese a cadere sul Monte di Dio. L’esercito di Satana non era ancora visibile e le muraglie di topazio, le torri di smeraldo, i tetti di diamante si frantumarono con un tremendo clamore sotto la scarica degli elettrofori. Le vecchie moltitudini cercarono di rispondere, ma i loro strali erano troppo corti e si perdevano nelle distese deserte dei cieli.
Colpiti da un nemico invisibile, gli angeli fedeli abbandonarono gli scomparti. L’arcangelo Michele andò ad annunziare al suo Dio che la Montagna Sacra sarebbe caduta nel giro di ventiquattr’ore nelle mani dei ribelli e che, per il Re del Mondo, l’unica salvezza consisteva nella fuga. I Serafini misero nei forzieri i tesori della corona celeste. L’arcangelo Michele offrì il proprio braccio alla Regina dei Cieli e la sacra famiglia fuggì dal palazzo passando attraverso un sotterraneo di porfido, mentre un diluvio di fuoco cadeva sulla cittadella; poi, avendo preso nuovamente il suo posto di combattimento, il glorioso arcangelo dichiarò che non avrebbe mai capitolato, e fece immediatamente innalzare i labari del Dio Geova. La sera stessa, l’esercito dei rivoltosi fece la sua irruzione nella città tre volte santa. Sopra un cavallo di fuoco, Lucifero guidava la schiera degli angeli ribelli. Dietro di lui, marciavano Arcade, Istar e Zita. La guarnigione depose le proprie armi dinnanzi a Lucifero. L’arcangelo Michele mise ai piedi dell’arcangelo vittorioso la sua spada fiammante.
«Riprendi la tua spada, Michele. Lucifero te la restituisce. Tienila per difendere la pace e la legge».
Poi, volgendo il suo sguardo sui capi delle falangi celesti, gridò con voce rassicurante: «Arcangelo Michele, e voi Potenze, Troni e Dominazioni, giurate di essere tutti fedeli al vostro nuovo Dio».
«Noi lo giuriamo», risposero in coro.
E Lucifero aggiunse: «Potenze, Troni, Dominazioni, di tutte le guerre passate io voglio soltanto ricordare il coraggio invincibile che voi avete mostrato e questa fedeltà mantenuta che mi garantisce il giuramento che mi avete appena fatto».
Dopodiché, si fece incoronare Dio. Affollandosi sui muraglioni risplendenti della Gerusalemme celeste, apostoli, pontefici, vergini, martiri, confessori, l’intero popolo degli eletti che durante il feroce combattimento osservò lo spettacolo con ineffabile tranquillità, ora gustò lo spettacolo dell’incoronazione con infinita gioia. Gli eletti videro Geova precipitare negli inferi e Lucifero sedersi sul trono dell’Altissimo. In conformità alla volontà di Dio che aveva loro impedito il dolore, cantarono sul modo antico le lodi del loro nuovo Signore. E Lucifero, proiettando nello spazio il proprio sguardo penetrante, contemplò questo piccolo globo di terra e d’acqua dove un tempo piantò il vigneto e formò i primi cuori tragici. Ed egli posò il suo sguardo su questa Roma dove il dio ora sconfitto aveva, mediante la frode e la menzogna, fondato la sua potenza. Tuttavia un giusto governava in quel momento questa chiesa. Lucifero lo vide piangere e pregare. E così gli disse: «Io ti confido la mia sposa. Proteggila devotamente. Ti confermo il diritto e il potere di stabilire la dottrina, di regolare l’uso dei sacramenti, di promulgare leggi per preservare l’integrità dei costumi. E ogni fedele avrà l’obbligo di conformarvisi. La mia chiesa è eterna e le porte dell’inferno mai prevarranno su di essa. Tu sei infallibile. Nulla è cambiato».
Sentendo queste parole, il successore di Pietro si sentì inondato di felicità. Si prosternò e, con la fronte a terra, rispose: «Signore mio Dio, riconosco la tua voce. Il tuo respiro si è diffuso nel mio cuore come un balsamo. Che il tuo nome sia benedetto. Che la tua volontà sia compiuta, in cielo come in terra. Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male».
E Lucifero si compiacque. Quindi, decise di proclamarsi — seguendo l’esempio del suo predecessore — un Dio unico in tre persone. Al momento di questa proclamazione, Arcade sorrise, ed egli lo cacciò via. Così, i secoli passarono come secondi. Ma un giorno, dall’alto del suo trono, egli immerse il suo sguardo nell’abisso più profondo e vide Geova nella Gehenna, incatenato.
A questo punto Lucifero si risvegliò dal suo sogno, madido d’un sudore glaciale. Nettario, Istar, Arcade e Zita gli stavano accanto.
«Compagni — disse il grande arcangelo —, no, noi non conquisteremo i cieli. Poterlo fare è già sufficiente. La guerra fomenta altre guerre, e la vittoria è foriera di sconfitta. Dio vinto diventerebbe Satana, Satana vincitore diventerebbe Dio. Possa il destino allontanarmi da una simile sorte! Amo la terra dove ho compiuto qualcosa di buono, per quanto ciò sia possibile in questo mondo terribile in cui gli esseri vivono di omicidî. Ma che importa che gli uomini non siano più sottomessi a Geova se Geova è ancora in essi — gelosi, violenti, litigiosi, avidi, nemici delle arti e della bellezza —; che importa che essi rifiutino il Demiurgo feroce, se non vorranno prestare orecchi ai dèmoni amici che vogliono insegnare loro la verità: Dioniso, Apollo e le Muse. Quanto a noi, spiriti celesti, angeli sublimi, noi avremo distrutto Geova, nostro tiranno, solo quando avremo distrutto dentro di noi l’ignoranza e la paura».
Infine Satana si rivolse al giardiniere: «Nettario, tu hai combattuto con me prima della nascita del mondo. Noi fummo sconfitti perché non avevamo compreso che la vittoria è Spirito e che è in noi e in noi soltanto che bisogna attaccare e distruggere Ialdabaoth».