VITTORIO SERENI:
ALLA FRONTIERA CON UNA LESTRIGÒNIA

di Franco Trinchero

[Franco Trinchero è nato nel 1957 e vive a Torino.
Poeta, ha vinto nel 1999 il Premio Montale (Roma).
Ha fondato a Torino le case editrici Albúnea e Asset 1990,
particolarmente attente a ospitare voci significative
di poesia italiana contemporanea]

Fra i maggiori poeti italiani del Novecento, Vittorio Sereni è quello forse che meno annovera scandagli critici proporzionati alla sua statura. La stessa edizione critica di tutte le poesie è giunta piuttosto tardi (nel 1995, a cura di Isella). Laddove, pur nella discrezione e nel parco numero di libri dati alle stampe, egli ha non di rado attinto vertici supremi, che rendono non improponibili accostamenti, anche sincronici, a Montale.
Dei due libri centrali e più noti, il Diario d’Algeria e il capitale Gli strumenti umani, è fin superfluo ricordare i meriti. Ma anche il giovanile Sereni di Frontiera (I edizione: Milano, edizioni di Corrente, 1941, collana diretta da Anceschi) meriterebbe forse ben diverse attenzioni e riletture: meno contando quel che di datato può esservi dell’ermetismo (il frequente scorciato dell’analogia, parole d’ordine ecc.) rispetto alla definizione già tutta intiera di un paradigma, una prigionia biologica che è nei fatti, ma prima ancóra si costituisce nelle aporie lancinanti del pensiero-linguaggio.
Fin dai miei anni più verdi rimasi stregato da quello straordinario finale di Inverno a Luino (nel libretto giovanile appunto): «Di notte il paese è frugato dai fari, | lo borda un’insonnia di fuochi | vaganti nella campagna, | un fioco tumulto di lontane | locomotive verso la frontiera». Ecco: Luino non è più Luino, il «paese» è l’anima. La pura fenomenologia (è da ricordare che Sereni fu compagno di Anceschi, Cantoni, Paci in quell’eccezionale stagione milanese) della prima strofe e dell’attacco della seconda transcorre in altissima allegoria. La «frontiera» (che d’altra parte è eponima) è, certo, quella verso un’Europa vissuta come ricchezza di civiltà; e pure evoca una sorta di apocatastasi che ingloba l’idea di morte: dell’individuo, come suo destino costitutivo, della giovinezza, di tutto un mondo nella monta liana bufera che sfocia nella più atroce guerra di tutta la storia: temi frequenti nel primo Sereni, e dopo ancóra ripresi. Ma ci sarà anche altro da enucleare.

Da Luino, a quel che ho appurato, non sembra vi siano stati mai treni notturni per la Svizzera, la frontiera letterale (neppure treni merci); a mal grado delle chiose di Barigozzi nell’Almanacco Luinese 1984. Non saremo, allora, in un tempo come scansione astronomica. La «notte» è quella del alma, e si dà in uno spazio che è quello del linguaggio. Il «tumulto» (e si veda 3 dicembre, dov’è il «tumulto dei binari», in una connessione con il «morire», altra situazione di valico, di confine) è ciò che tende a portar via dal linguaggio, a lasciarci nudi, spogliati della parola (e anche di ogni linguaggio non-verbale), e dunque, in ultima analisi, raggelati in questa esistenza. Ed è la storia medesima a rendere, o ad esplicitare, l’uomo del Novecento come raggelato. In una derivazione montaliana, l’esistenza appare come falso movimento dispersivo, morte-in-vita, continuato tramonto, «cenere dei giorni» (Strada di Zenna), e costante ritorno a un ghiaccio iemale, incolore. Intercisa solo da brevi punti di gioia, che non chiedono altra spiegazione che in sé; senza escludere una dimensione diversa oltre la vita (più nette dei viventi saranno, poi, le ombre dei morti), per tutto il cammino poetico di Sereni, sebbene in una forma dubitativa che parrà pendere sempre più verso un’opzione nichilista (cfr. Mengaldo*).
L’Inverno a Luino è l’inverno della parola. «Di notte il paese è frugato dai fari»: certo, vi sono fari di segnalazione sulle colline della valle Tresa; e si può correttamente pensare, con Barigozzi, alle torpediniere sul lago di cui parla Terrazza, che dovevano essere della Guardia di Finanza: e irroventiva il clima che sarebbe sboccato nel tragico 1939. E i «fuochi», «vaganti nella campagna», saranno anche fanali di veicoli, o pavesiani falò, o magari perfino fuochi fatui; e i fuochi stessi delle (però tutte allegoriche) locomotive a vapore. Ma, ripeto, quei lumi acuti e violenti («fari», «fuochi») attengono alla metafisica. Sono lumi che, pur segando insonni la densezza della notte, non riescono a schiararla. I lumi ripetono pateticamente l’estate della parola, affollata di oggetti, che era nella prima strofe (dove «sfavilla», «luminarie», «luce di calma, una vetrina»). Ma l’estate, con la sua epifania di luce suggerita dal Montale di Eastbourne **, è finita per sempre, con quel «vento», così tipico del primo Sereni, contro cui è inutile difendersi, e che sembra già preconizzare una oltrumanizzazione del suono e dei segni. Il risucchio inesorabile — e la salvezza — è solo là, nel passaggio della frontiera, verso una dimensione differente da quella del linguaggio conosciuto, che nei modi sordi e stutati delle locomotive lontane potrà aver luogo. Un urgere del silenzio contro una descrittività, infine, impossibile, contro il «vano» che è l’opporsi al preponderare di cenere e di gelo. Notte, appunto, dell’anima, che prelude a una possibile fusione con l’altro, innominabile, di là dal confine.
Si vedano, a confronto, Paese (redazione 1938): «in disperate brughiere | che salgono verso il confine»; In me il tuo ricordo (redazione definitiva 1940): «solo, di me, distante, | dura un lamento di treni, | d’anime che se ne vanno»: vi è la marca di una dolente fuga, di una frontiera come varco agognato e coercente insieme, di un andarsene verso un altrove non significabile. La vita si presenta, già a quest’altezza di tempo, come nodo di contraddizioni che il linguaggio poetico può solo simbolizzare senza ordinare. Il poeta “legislatore” è e sarà lontano dal mondo di Sereni, e l’“assenza” è solo constatata in re, non muove la costruzione in positivo di un “altro” mondo autosufficiente e allusivo. E il motivo del valico e della sperata estate resterà nella poesia di Sereni, sino alla ben più tarda e quasi testamentaria Autostrada della Cisa: «come di là dal valico un ritorno d’estate» (sia pure contraddetto, subito dopo, da una domanda fortemente permeata di strazio nichilista). Dell’oltre-valico si potrà solo argomentare, e contrario, che sarà un luogo e un tempo di non-sonno (antitetico allo stremato sonno-prigionia delDiario d’Algeria).
Tra accesa speranza e sfiducia nelle residue possibilità della parola di parlare (con la memoria quasi un’interferenza, una messa in folle del discorso e del ragionamento: cfr. Mengaldo***) e di nominare un’alternativa possibile, si moverà la poesia delle raccolte successive di Sereni, dal contiguo Diario d’Algeria a Gli strumenti umani a Stella variabile; e le prose, diaristiche e d’invenzione, pure lasceranno trapelare codesta serrata tensione di sentimenti e di stili che, complicandosi di altre ragioni — autobiografiche, storiche, politiche, sociologiche, letterarie —, intrama sottilmente la sua opera in versi. Fin dall’inizio (e poi sempre più programmaticamente), fin da quella stagione poetica di separatezze, da Sereni impiantate tuttavia in una già ben terrestre corografia “lombarda”.
«Di notte il paese è frugato dai fari, | lo borda un’insonnia di fuochi | vaganti nella campagna, | un fioco tumulto di lontane | locomotive verso la frontiera». Il passo delle locomotive sarà, allora, come «il passo che risuona a lungo nell’oscuro» di Montale (Notizie dall’Amiata, coeva ad Inverno a Luino che è del 1937). Quell’«oscuro», e quell’affiochirsi di luci e suoni e parola verso il confine, rimandano a una sorta di Dio malato, di Dio che nel mondo non ha possibilità, se non, come in Montale e in Sereni appunto, quella di rinviare di là dal linguaggio.
Ma, diversamente dall’antistoricistico desiderio teologico di Montale, il valico-varco sembra condurre, in Sereni, a una vita potenziata e senza decezioni: verso una sorta di terra dei Lestrìgoni, la terra dalle «brevissime notti» dell’Odissea, ove il sonno è bandito; verso una dimensione che ospiti infine movimento, «valentìa», linearità non febbrile, armonico e solare sviluppo: «una marcia d’insonni girasoli» già in Alla giovinezza che conchiude, con presagio di riprese ulteriori, la prima sezione di Frontiera.

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* P. V. MENGALDO, “Il solido nulla”, ora in La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze, 1987; ristampa presso Bollati Boringhieri, Torino, 1996-2000.

** Cfr. Vittorio SERENIGli immediati dintorni primi e secondi, Il Saggiatore, Milano, 1983.

*** P. V. MENGALDO, “Iterazione e specularità in Sereni”, ora come postfazione alla nuova edizione di V. SERENIGli strumenti umani, Einaudi, Torino, 1975.