PERCHÉ (E PER CHI) ARRESTARE

JULIAN ASSANGE?

 

Abbiamo deciso di ricorrere alla penna di Sergio Di Cori Modigliani
(scrittore e blogger, che ringraziamo calorosamente — http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.it/)
per diffondere alcune riflessioni a nostro parere indispensabili
per comprendere le vere motivazioni che stanno alla base
del mandato di arresto a carico di Julian Assange.

Ricordiamo infatti che il 18 novembre 2010 il tribunale di Stoccolma
spiccò un mandato d'arresto in contumacia nei suoi confronti
per presunte molestie sessuali (il reato contestatogli sarebbe
di avere avuto rapporti sessuali non protetti, seppur consenzienti).
Il sospetto è che tale pretesto sia in realtà finalizzato
a estradarlo negli Stati Uniti dove subirebbe un processo
per spionaggio che potrebbe condurlo sulla sedia elettrica
(la Svezia è stata accusata più volte in passato di avere compiuto
tali giochetti sporchi a favore degli USA e,
almeno in un caso, ha dovuto ammettere la propria colpevolezza
e sborsare un lauto risarcimento).

 

Perché Jules Assange ha scelto un minuscolo, nonché pacifico, staterello del Sudamerica che conta poco o nulla? Come mai la corona dell’Impero britannico perde la testa e si fa prendere a schiaffi davanti al mondo intero da un certo signor Patino, ministro degli esteri ecuadoreño (per gli euro-atlantici un vero e proprio Signor Nessuno), il quale ha dato una risposta alla super élite planetaria (cioè il Foreign Office di Sua Maestà) tale per cui, cinque anni fa, avrebbe prodotto soltanto omeriche risate di pena e disprezzo, mentre oggi li costringe ad abbozzare, ritrattare, scusarsi davanti al mondo intero?

Julian Assange possiede le trascrizioni di diverse conversazioni avvenute nelle più disparate cancellerie del globo, che coinvolgono gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, la Germania, il Vaticano, dove l’economia la fa da padrona. In queste lunghe conversazioni, si parla di come mettere in ginocchio le economie sudamericane, come portar via le loro risorse energetiche, come contrastare la loro ripresa e la loro crescita, come impedire ai governi di far passare i piani economici keynesiani applicando invece i dettami del Fondo Monetario Internazionale (FMI) il cui unico scopo consiste nel praticare una politica neo-colonialista a vantaggio soprattutto di Spagna, Italia e Germania, con capitali inglesi. Gran parte dei file sono già stati resi pubblici su internet. Gran parte dei file sono offerti da Assange all’ambasciatore in Gran Bretagna dell’Ecuador, la prima nazione del continente americano — e unica nazione nel mondo occidentale dal 1948 — ad aver applicato il concetto di “debito immorale” ovvero «il rifiuto politico e tecnico di saldare alla comunità internazionale i debiti consolidati dello Stato perché ottenuti dai precedenti governi attraverso la corruzione, la violazione dello Stato di Diritto, la violazione di norme costituzionali».

Infatti, il 12 dicembre del 2008, il neo presidente del governo ecuadoreño Rafael Correa dichiara in diretta televisiva in tutto il continente americano (i massmedia europei non hanno mai diffuso un solo fotogramma di tale dichiarazione) di «aver deciso di cancellare il debito nazionale considerandolo immondo, perché immorale; hanno alterato la costituzione per opprimere il popolo raccontando il falso. Hanno fatto credere che ciò chè è legge, cioè legittimo, è giusto. Non è così: da oggi in terra d’Ecuador vale il nuovo principio costituzionale secondo cui solo ciò che è giusto per la collettività diventa legittimo». Cifra del debito: 11 miliardi di euro.

Il Fondo Monetario Internazionale fa cancellare l’Ecuador dal nòvero delle nazioni civili: non avrà mai più aiuti di alcun genere da nessuno. «Il paese va isolato», dichiara Dominique Strauss Kahn, allora segretario del FMI. Il Paese è in ginocchio.

Il giorno dopo, Hugo Chavez annuncia che darà il proprio contributo con petrolio e gas gratis all’Ecuador per dieci anni. Quattro ore più tardi, il presidente Lula annuncia che darà gratis 100 tonnellate al giorno di grano, riso, soya e frutta per nutrire la popolazione, finché la nazione non si sarà ripresa. La sera, l’Argentina annuncia che darà il 3% della propria produzione di carne bovina di prima scelta gratis all’Ecuador per garantire la quantità di proteine per la popolazione. Il mattino dopo, in Bolivia, Evo Morales annuncia di aver legalizzato la cocaina considerandola produzione nazionale e bene collettivo; tassa i produttori di foglie di coca e offre all’Ecuador un prestito di 5 miliardi di euro a tasso zero restituibile in dieci anni in 120 rate. Dieci giorni dopo, i verdi bavaresi, i verdi dello Schleswig Holstein, in Italia la Conad, e in Danimarca la Haagen Daaz, si dichiarano disponibili a firmare subito contratti decennali di acquisto della produzione di banane attraverso regolari tratte finanziarie in euro che possono essere scontate subito alla borsa delle merci di Chicago.

Nel frattempo, l’Ecuador denuncia la United Fruit Company e la Del Monte & Associates per «schiavismo e crimini contro l’umanità», nazionalizza l’industria agricola delle banane (l’Ecuador è il primo produttore al mondo) e lancia un piano nazionale di investimento di agricoltura biologica ecologica pura.

Il 20 dicembre del 2008, facendosi carico della protesta della United Fruit Company, il presidente George Bush dichiara «invalida e criminale la decisione dell’Ecuador» annunciando la richiesta di espulsione del paese dall’Onu: «siamo pronti anche a una opzione militare per salvaguardare gli interessi statunitensi». Il mattino dopo, il potente studio legale di New York Goldberg & Goldberg presenta una memoria difensiva a favore dell’Ecuador, sostenendo che c’è un precedente legale. Sei ore dopo, gli Usa si arrendono e impongono alla comunità internazionale l’accettazione e la legittimità del concetto di «debito immorale». La United Fruit Company viene provata come «multinazionale che pratica sistematicamente la corruzione politica» e condannata a pagare danni per 6 miliardi di euro. Da notare che il «precedente legale» è datato 4 gennaio 2003 a firma George Bush. È accaduto in Iraq che, in quel momento, risultava “tecnicamente” possedimento americano in quanto occupato dai marines con governo provvisorio non ancora riconosciuto dall’Onu. Saddam Hussein aveva lasciato debiti per 250 miliardi di euro (40 dei quali nei confronti dell’Italia, grazie alle manovre di Taraq Aziz, vice di Hussein e uomo dell’Opus Dei fedele al Vaticano) che gli Usa cancellano applicando il concetto di “debito immorale” e aprendo la strada a un precedente storico. Gli avvocati newyorchesi dell’Ecuador offrono al governo americano una scelta: o accettano e stanno zitti oppure, se si annulla la decisione dell’Ecuador, si annulla anche quella dell’Iraq e il tesoro USA deve pagare subito i 250 miliardi di euro a tutti, compresi gli interessi composti per quattro anni. Obama, non ancora insediato, ma già eletto, impone a Bush di gettare la spugna. La solida parcella degli avvocati newyorchesi viene pagata dal governo brasiliano.

Nasce allora il Sudamerica moderno. E cresce e si diffonde il mito di Rafael Correa. Non un contadino indio come Morales, un sindacalista come Lula, un operaio degli altiforni come Chavez. Tutt’altra pasta. Proviene da una famiglia dell’alta borghesia caraibica. Laureato in economia e pianificazione economica a Harvard, si auto-definisce «cristiano-socialista come Gesù Cristo, sempre schierato dalla parte di chi ha bisogno e soffre». Il suo primo atto ufficiale consiste nel congelare tutti i conti correnti dello IOR nelle banche cattoliche di Quito e dirottarli in un programma di welfare sociale per i ceti più disagiati. Fa arrestare l’intera classe politica del precedente governo, che viene sottoposta a regolare processo. Finiscono tutti in carcere di massimo rigore, con una media di dieci anni a testa. Beni confiscati, proprietà nazionalizzate e ridistribuite in cooperative agricole ecologiche. Trasmette una lettera a papa Ratzinger dove chiede ufficialmente che il Vaticano invii in Ecuador soltanto «religiosi dotati di profonda spiritualità e desiderosi di confortare i bisognosi, evitando gli affaristi che finirebbero sotto il rigore della legge degli uomini».

Oggi, in tutto il mondo si parla di Rafael Correa, dell’Ecuador, del debito immorale, del nuovo Sudamerica che ha detto no al colonialismo e alla servitù delle multinazionali europee e statunitensi. In Italia lo faccio io sperando di essere uno dei tanti. 

Per 400 anni, da quando gli europei scoprirono le banane ricche di potassio, gli ecuadoregni hanno vissuto nella povertà, nello sfruttamento, nell’indigenza, mentre per centinaia di anni un gruppo di oligarchi si arricchiva alle loro spalle. Non sarà più così. A meno che non finiscano per vincere Mitt Romney, Draghi, Monti, Cameron e l’oligarchia finanziaria.

L’esempio dell’Ecuador è vivo, può essere replicato in ogni nazione africana o asiatica del mondo. E perfino in Europa.

Per questo Julian Assange ha scelto l’Ecuador. Il colpo decisivo viene dato da una notizia esplosiva resa pubblica (non a caso) il 4 agosto del 2012: «Julian Assange ha firmato il contratto di delega con il magistrato spagnolo Garzòn che ne rappresenta i diritti legali a tutti gli effetti in ogni nazione del globo». Chi è Garzòn? È il nemico pubblico numero uno della criminalità organizzata. È il nemico pubblico numero uno dell’Opus Dei. È il più feroce nemico di Silvio Berlusconi. È in assoluto il nemico più pericoloso per il sistema bancario mondiale. Magistrato spagnolo con 35 anni di attività e di esperienza alle spalle, responsabile della Procura Reale di Madrid, ha avuto tra le mani i più importanti processi spagnoli degli ultimi 25 anni. Esperto in “media & finanza” e, soprattutto, grande esperto in incroci azionari e finanziari, salì alla ribalta internazionale nel 1993 perché presentò all’Interpol una denuncia contro Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri (chiedendone l’arresto) relativa a Telecinco, Pentafilm, Fininvest, Reteitalia e Le cinq da cui veniva fuori che la Pentafilm (Berlusconi e Cecchi Gori soci) acquistava a 100 dollari i diritti di un film alla Columbia Pictures che rivendeva a 500 dollari alla Telecinco che li rivendeva a 1000 dollari a Rete Italia che poi in ultima istanza vendeva a 2000 dollari alla Rai, in ben 142 casi tre volte: li ha venduti sia a Rai1 che a Ra2 che a Rai3. Lo stesso film. Cioè la Rai ha pagato i diritti di un film 20 volte il valore di mercato e l’ha acquistato tre volte, così tutti i partiti erano presenti alla pari. Quando si arrivò al nocciolo definitivo della faccenda, Berlusconi era presidente del consiglio, quindi Garzòn venne fermato dalla UE. Ottenne una mezza vittoria: chiuse la Telecinco e finirono in galera i manager spagnoli. Ma Berlusconi rientrò dalla finestra nel 2003 come Mediaset. Si riaprì la battaglia, Garzòn stava sempre lì. Nel 2006 avrebbe potuto farcela, ma il governo italiano di allora (Prodi) aiutò Berlusconi a uscirne. Nel 2004 aprì un incartamento contro papa Woytila e contro il management dello IOR in Spagna e in Argentina, in relazione al finanziamento e al sostegno da parte del Vaticano delle giunte militari di Pinochet e Videla in Sudamerica.

Nel 2010 Garzòn si dimise andando in pensione, ma aprì uno studio di diritto internazionale dedicato esclusivamente a “media & finanza” con sede all’Aja, in Olanda. È il magistrato che è andato a mettere il naso negli affari più scottanti, in campo mediatico, dell’Europa, degli ultimi venti anni. In quanto legale ufficiale di Assange, il giudice Garzòn ha l’accesso ai 145.000 file ancora in possesso di Assange che non sono stati resi pubblici. Ha già fatto sapere che il suo studio è pronto a denunciare diversi capi di stato occidentali al tribunale dei diritti civili con sede all’Aja. L’accusa sarà «crimini contro l’umanità, crimini contro la dignità della persona». La battaglia è dunque aperta. In USA non fanno mistero del fatto che lo vogliono morto. Anche gli inglesi. Ma hanno non pochi guai perché, nel frattempo, Assange ha provveduto a organizzare un gruppo planetario che si occupa di contro-informazione. I suoi esponenti sono anonimi. Nessuno sa chi siano. Non hanno un sito identificato. Semplicemente, immettono in rete dati, notizie, informazioni, eventi. Poi, chi vuole sapere sa dove cercare e chi vuole capire capisce. Quando la temperatura si alza, va da sé, il tutto viene in superficie. E allora si balla tutti. In Sudamerica, oggi, la chiamano “British dance”.

Per questo Assange sta dentro l’ambasciata dell’Ecuador. Per questo Garzòn lo difende. Per questo la storia del Sudamerica va raccontata. Per questo l’Impero britannico ha perso la testa e lo vuole far fuori. Perché Assange ha accesso a materiale di fonte diretta. E il solo fatto di dirlo, di divulgarlo, scopre le carte a chi governa, e ricorda alla gente che siamo dentro una Guerra Invisibile Mediatica.

I governi corrotti non sanno come fare a fermare la diffusione di informazioni su ciò che accade nel mondo. Finora gli è andata bene, rimbecillendo e addormentando l’umanità. Ma nel caso ci si risvegliasse, per il potere sarebbero dolori imbarazzanti.

Wikileaks non va sottovalutato — c’è gente che per immettere una informazione da un anonimo internet point a Canberra, Bogotà o Saint Tropez rischia anche la pelle. Questi anonimi meritano il nostro rispetto. E ci ricordano anche che non potremo più dire, un domani, “ma noi non sapevamo”. Chi vuole sapere, oggi, è ben servito. Basta cercare. Se poi, di questo sapere un internauta non ne fa nulla, è una sua scelta.

Ormai sappiamo come stanno le cose. E non ci si può sorprendere che in Italia nessuno abbia mai parlato prima dell’Ecuador, di Rafael Correa, di ciò che accade in Sudamerica, dello scontro furibondo in atto tra la presidente argentina e brasiliana da una parte e Christine Lagarde e la Merkel dall’altra. Perché stupirsi, quindi, che gli inglesi vogliano invadere un’ambasciata straniera? Non era mai accaduto neppure nei momenti più bollenti della cosiddetta Guerra Fredda.

Settembre 2012

© Sergio Di Cori Modigliani