«A ME FA SCHIFO LA MORTE!»

di Rosanna Farinazzo


Quasi un grido di indignazione quel «A me fa schifo la morte» che il filosofo Giulio Giorello ha recentemente pronunciato, un tentativo di andare oltre la testimonianza di Tiziano Terzani, l’abdicazione della sua intelligenza, che sulla soglia dell’annientamento fisico si annulla e si consegna in silenzio alle leggi della natura, perché a quel punto non rimane nient’altro. Un’accettazione serena e consapevole della propria scomparsa è già qualcosa di raro e prodigioso, ma non fino al punto da dare dignità alla malattia e alla morte, che rimangono comunque orrendamente mutilanti e umilianti (cfr. gli ultimi versi di Giovanni Raboni: «In niente c’è meno dignità che nella morte»).
Era forse questo quello a cui Giulio Giorello alludeva quando parlava di una prigione? A questa ineluttabile e cieca necessità di adeguamento allo stesso programma cellulare di morte, un dover continuare a morire perché la natura intorno continua a morire?

Perché la nostra intelligenza non riesce a spingersi oltre neppure in modo teorico, se non da dietro una facciata scientifica? Davanti alla morte rimaniamo impietriti, sconfitti, neanche la fierezza di dire «A me fa schifo», perché fa scalpore, scandalizza. Dobbiamo proprio ritenerci condannati ai movimenti della natura inferiore?

E se ci fidassimo invece di questo sano orrore profondo, anziché fingerne la non esistenza oppure blandirlo con consolazioni cristiane o nirvaniche? Se fosse questa la leva per spingersi oltre? E se l’uomo non fosse un punto evolutivo d’arrivo, ma una forma transitoria destinata a esprimere pienamente una natura che è necessario avere il coraggio di avvertire immortale? Lo so, fa a pugni con la ragione: come si fa a essere qualcosa di inevitabile? Come conciliarlo con questo spontaneo, viscerale rifiuto, una ripugnanza insita nella sostanza stessa del corpo?

Esiste dunque una coscienza cellulare, molecolare che sa ed è libera dalle leggi attuali della natura e in grado di progredire oltre le stesse? Una legge evolutiva permanentemente in atto con cui il nostro orrore si sta mettendo in contatto?

«La scienza parla di una volontà nell’atomo, e di fronte alle imprevedibili variazioni individuali nelle attività dell’elettrone si è accorta che non si tratta di una metafora, ma di un’ombra proiettata da una realtà nascosta», nota Sri Aurobindo. È da considerare quindi questa coscienza cellulare, corporea, qualcosa di tangibilmente reale?

E se la malattia e la morte fossero dunque soltanto un ripiegamento, l’abitudine millenaria a una sconfitta cellulare? Una corteccia di contagio collettivo che ricopre una centralità libera e immortale, come dice la scienza? E se la necessità di dover per forza morire fosse solo il reiterato meccanico tendere verso un errore?

Siamo impastati di malattia e di morte, condannati a estinguerci, imprigionati in una natura inferiore. Ma se la cellula è libera, perché non lo è anche il corpo? Quali antichi programmi continua a seguire in disaccordo con la scienza e supportati dalla medicina che rende più forte e reale qualunque sintomo, catalogandolo per l’eternità? Pare questa la prima vera prigione, che avvalora quello che all’inizio potrebbe essere solo un’ombra, un timore, un tendere abitudinario del corpo.

Come collegare scienza e vita? Come far uscire la scienza dai laboratori e rendere la cellula oggettivamente libera, liberando anche il corpo?

La vera salvezza appare soltanto nell’inclusione del corpo ed è quindi fisica. Come possono le premesse religiose che fanno della morte una liberazione o addirittura una ricompensa interessare chi ha la sincerità di sentire una ripugnante sconfitta in questa incosciente inadeguatezza del corpo? Solo liberandoci di qualunque consolazione ci è consentito di avvertirne tutto l’orrore.

Come accettare una spiritualità che continua a promettere gioia solo in assenza di vita e non riesce a includervi il corpo? Quale il senso di essere vivi in un corpo, se la libertà si trova solo nello scollegamento da esso?

Certo, quando come Tiziano Terzani si è all’ultimo atto e prossimi alla disfatta, non rimane che rendersi indipendenti dal corpo e affrontarla nelle tranquille profondità del proprio essere, in una coscienza unitaria in cui la morte non è più estinzione, ma solo una transizione. Questa l’unica rarissima libertà consolatoria concessa, ma prima di arrivare a quel punto non è forse necessario lottare, resistere il più a lungo possibile e superare se stessi andando contro questa suggestione collettiva di malattia e di morte, che è vischiosa, schiacciante, basata su leggi che non hanno mai concesso eccezioni?
E non è facile, c’è qualcosa che è stanco, che vuole arrendersi, qualcosa che acconsente a morire, e riusciamo a stento a sollevare un moto di dissenso o una speranza. È necessario essere dei veri guerrieri.

Eppure esiste questo pulsare in noi quasi di un diritto all’immortalità — su questa terra — una specie di intuitiva consapevolezza che non ha niente di razionale, ma è fisica… Che sia questa coscienza fisica, che da un lato grida all’orrore e dall’altro è impossibilitata a disfare questa trama di morte, da ampliare e far progredire?

Come sconfiggere questo processo di disgregazione che degrada il corpo e lo fa deperire, rendendo perciò necessaria la morte? Se fosse possibile infondere sufficiente coscienza nella materia, un senso del progresso e della perfezione, affinché il suo ritmo di crescita fosse in sintonia con le parti più sottili dell’essere, ed essa divenisse sufficientemente plastica da riuscire a seguire il processo interiore, forse non ci sarebbe bisogno di una drastica rottura e la morte non sarebbe più necessaria?

Cos’è che impedisce alla forma umana di evolvere in armonia con il progressivo cambiamento del dinamismo interiore? E perché il corpo non riesce ad essere al passo con l’innalzamento della coscienza che si logora e deperisce ed è perciò costretto ad uscire dal movimento della vita?

In questa simultanea coesistenza di vita e morte, perché non è la vita a vincere? C’è come l’impressione che esista un segreto da andare a scovare e che l’esatto procedere sia verso una infusione di maggiore fiducia nella coscienza corporea, un suo allargamento, una maggiore flessibilità. Nel punto più fondo dove vita e morte coincidono c’è qualcosa che sceglie sempre la morte. Se si deve continuare a morire, che si muoia almeno spingendoci fino a quel punto, dove ancora ci è dato di scegliere. Com’è possibile continuare a far finta di vivere?

E c’è chi l’ha tentato e ha fatto del suo corpo un laboratorio vivente. Esiste un Istituto di Ricerche Evolutive che ha sede a Parigi, che ne ha pubblicato le testimonianze: sono i tredici volumi dell’Agenda di Mère, un resoconto dettagliato della sua trasmutazione fisica, il suo faccia a faccia con la morte. Qualcosa sta cercando di aprirsi un varco non solo nella coscienza dell’uomo ma nella concretezza del corpo…

Marzo 2006