MÈRE su Satprem

a cura di Tommaso Iorco
(autore tutelato S.I.A.E.)


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Due conversazioni tratte da l’Agenda di Mère mettono in luce alcuni aspetti fondamentali della particolarissima personalità di Satprem.
Le riportiamo, per poi effettuare qualche considerazione.
Entrambe le conversazioni di Mère sono scaturite alla fine di una specifica meditazione con Satprem.


30 ottobre 1960

Mère: «Appena cominciata la meditazione, ho visto delle scene dell’antico Egitto, molto familiari. Tu eri un po’ diverso, ma al tempo stesso molto simile… La prima cosa che ho visto, è quel loro dio che ha la testa così [gesto come di un muso], con un sole sopra. Una testa di animale, una testa scura con… La conosco BENISSIMO, ma non so esattamente di che animale si tratta. Una è quella dello sparviero, e l’altra è una testa… [Mère ripete lo stesso gesto].

Satprem: Come di uno sciacallo?

Mère: Come di uno sciacallo, sì, proprio così. Sì, ecco cos’era. Con una specie di lira sopra la testa, e un sole.
Questo dio era in rapporto molto stretto con te, come foste fusi l’uno nell’altro: tu eri come un sacerdote sacrificale e al tempo stesso lui entrava in te.
La scena è durata parecchio, comunque questa è la cosa che ho visto più chiaramente, che ricordo meglio. Ma c’erano moltissime altre cose — vecchie cose che conosco bene — e certamente un rapporto MOLTO STRETTO che noi abbiamo avuto ai tempi dell’Egitto, a Tebe. […]
E così mi sono messa a guardare, e ho VISSUTO la scena, ogni sorta di scene: scene di iniziazione, di culto, eccetera, per molto tempo… E allora è scesa una luce […] Ed è scesa in un modo assolutamente ieratico, estremamente occulto, e estremamente ben definito e preciso [gesto come a indicare la discesa di un blocco di silenzio] E scendeva, scendeva, a fiotti. E aveva una tale gioia all’interno! Oh…!».


10 agosto 1966

Mère: «È molto divertente: qui [all’altezza del petto], così, hai come un grande bocciolo di loto reclinato [gesto della testa china in basso], tutto circondato da uno scintillio di luce dorata, e poi da un’altra banda di luce; ci sono tre, quattro, cinque fasce di luce di colori diversi. È lì [stesso gesto], così, reclinato».

Dopo che Satprem uscì, Mère rimase a lungo silenziosa, poi si voltò verso Sujata e disse: «Curioso, proprio curioso. Non avevo mai visto un bocciolo di loto piegato in giù». E siccome Sujata restò a guardarla incuriosita, Mère aggiunse: «Il loto del cuore è sempre rivolto verso l’alto: è l’aspirazione. Lì, invece [in Satprem] si chinava verso la terra».


Innanzitutto, ricordiamo che, secondo l’antica tradizione egiziana, il dio dalla testa da sciacallo è Anubis (chiamato Anepu dagli antichi egiziani), dio della necropoli, destinato alla cura dei morti, colui che veglia sui riti funebri e sul viaggio verso l’Altromondo.
Anubis aveva aiutato la Dea Madre Iside a ricomporre il corpo del suo sposo, Osiride, che era stato ucciso e fatto a pezzi dal proprio fratello Set.
Osiride è stato il primo dio a regnare sugli uomini. Iside, aiutata da Anubis, era riuscita a resuscitarlo, con tutte le conseguenze che questo ritorno del dio-re della fertilità poteva significare per tutta quanta la terra.
Nel suo ruolo di guida dei morti, Anubis assimilò i tratti dell’ancora più antico dio egiziano Wepwawet, “colui che apre le vie”.
Il culto di Anubis, inoltre, proseguì in età greca e romana. Apuleio, nella sua bellissima opera ‘Asinus aureus’ descrive una processione della dea Iside in cui compare Anubis, «messaggero fra gli dèi del cielo e quelli degli inferi, che mostra alternativamente un volto nero come la notte e uno d’oro come il giorno, dalla testa aguzza di cane; nella mano sinistra reggeva il caduceo, nella destra una foglia di palma; subito dietro veniva una vacca in posizione eretta a simboleggiare la fecondità della dea» (XI.11).
Notiamo peraltro che Apuleio assimila la sua testa a quella di un cane ‘dalla testa aguzza’, anziché di uno sciacallo. E, in effetti, sebbene Anubis sia universalmente conosciuto come il ‘dio-sciacallo’, occorre precisare che lo sciacallo non esisteva nell’antico Egitto e il dio era perciò raffigurato con i tratti di certi «cani randagi, bestie simili al lupo, le grandi orecchie appuntite e il muso affilato, con le membra gracili e la coda lunga e folta» (dal “Dictionnaire de la civilisation égyptienne”, a cura di Posener), che erano soliti vagare per le montagne e ai limiti del deserto, ovvero nei luoghi in cui si solevano seppellire i defunti.

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Nella sublime epopea autobiografica Savitri, Sri Aurobindo descrive il Lavoro suo e di Mère — l’Opera di trasformazione della Materia e la conseguente fine della morte — attraverso l’antichissimo mito vedico di Savitri e Satyavan, ove l’eroina insegue il Signore della Morte per farsi restituire il proprio amato.
Satprem, alla luce di tutto ciò, potrebbe avere un ruolo importante nell’operazione di discesa nel regno dell’oltretomba compiuta da Mère.
Peraltro, in tutta la propria produzione letteraria (e soprattutto negli ultimi anni), Satprem ha continuato a ripetere fino all’esaurimento che noi esseri umani siamo immersi nella morte, che la nostra cosiddetta ‘vita’ è una solenne impostura, e che dobbiamo uscire dalle nostre bare di cadaveri ambulanti, per trovare la Vita vera e la Gioia divina in fondo al corpo.
La “resurrezione dei morti”, è la nostra resurrezione!

Anzi, rievocando egli stesso la visione di Mère relativa al dio Anubis, Satprem nota (nel suo bel libro “La légende de l’avenir”, del 1998):
«Eppure, questo dio dei morti… E questa straordinaria gioia che cantava, scaturita da un abisso sotto i miei piedi sul luogo dell’adunata sinistra, nel mezzo dei campi di morte.
Accadono cose strane nella vita — e se magari si trattasse della vera vita che struscia il suo muso sulla nostra crosta fossile?» (pagina 137).
I “campi di morte” cui Satprem allude, sono i lager, l’Orrore in cui è stato precipitato da giovanissimo per avere partecipato alla Resistenza. Ecco come egli stesso ricorda (sempre nel medesimo testo, davvero uno degli scritti più belli che ha lasciato) quella singolarissima esperienza di gioia mentre era detenuto a Mauthausen (o a Buchenwald):
«Avevo esattamente vent’anni quando sono entrato nei campi di sterminio — ne sono uscito come un morto, eppure ero vivo. L’“uomo”, era un 
NO, era stato distrutto per sempre. Era una nullità di Menzogna pretenziosa. Eppure, un giorno, su un sinistro piazzale d’adunata, sono stato proiettato in un pozzo di Tenerezza inimmaginabile e mi sono trovato invaso da una Gioia mai conosciuta prima — la quale usciva da un abisso nero assiderante e imperioso, al di sotto dei miei piedi. Se non avessi avuto timore di impazzire e di essere trivellato di colpi, avrei cantato.
Come se la prima espressione della gioia, fosse il canto» (pagine 125-126).
E poi, ricordando — poco oltre — la discesa di Mère nel regno della morte, quel fatale 17 novembre 1973, così conclude, con parole che lasciano abbacinati di fronte a un Mistero portentoso:
«No, non ero Anubis, purtroppo, e non avevo il potere di resuscitare la mia Iside, ma talvolta avrei voluto essere Orfeo, anche lui con la sua lira, come Anubis, che poteva incantare perfino le bestie selvagge e che seppe ammaliare addirittura Ade, il dio degli Inferi, ricevendo il permesso di andare a cercare la sua Euridice al fondo della morte… a condizione però che uscisse dagli inferi stando davanti a lei, senza voltarsi per rivederla. Ma egli dimenticò quella condizione, e si voltò per guardarla, perdendo la sua Euridice per sempre.
Spesso mi sono chiesto il perché di quella condizione.
Orfeo risale al VI secolo precedente la nostra èra di barbarie.
Quella prima sera, da solo con Sujata, mi trovavo di fronte al terribile 
PERCHÉ.
È strano come in questo momento Nullo, questo terribile Zero che si squarcia come dal fondo dei tempi, come al fondo di mille morti mai consolate, qualcosa di potente sorge, come il Potere stesso del mondo, come la Semenza dorata di questa terra — non ci sono parole e tutto è detto e 
SAPUTO. Forse che quella cosa possiede un canto e una Musica, simile a quella di Orfeo? Ma queste note, sublimi e immense come lo sciabordio dei mari, non posseggono un linguaggio, o non ancora. È forse la prima lingua del mondo prima che nasca alle sue pene e alle sue morti.
Avevo tutti questi assassini alle mie costole.
E sapevo che Lei non era morta.
Tirarla fuori da lì, ma come?
Nel mio cuore straziato e al fondo del mio corpo messo a nudo, era come se andassi alla ricerca di Mère, senza poteri occulti e senza riti, fossero pure sacri e egizi — senza conoscenza né nulla, senza musica, salvo il grido del mio cuore e questa volontà feroce scaturita dalla Morte stessa. Andavo a ritrovarla passo dopo passo, nella Notte, che era la Notte stessa del mondo, seguendo le sue tracce e ripercorrendo il suo cammino, che era il medesimo di Sri Aurobindo, entrambi colti dalla morte o spinti nella morte dai loro stessi discepoli — ma questa volta, vinceremo e sarà la Vittoria della Terra, la liberazione da questo orribile regno della Menzogna, sarà la Vita, finalmente.
È nel mio stesso corpo che l’avrei tirata fuori da lì, andando al fondo del Pozzo degli uomini e, spinta dalla mia preghiera e dal mio amore, Lei ritornerà trionfante su una Terra vera e nuova» (pagine 144-146).
Una decina di pagine dopo, Satprem nota infine una strana “coabitazione” e rivela una confidenza ancora più straordinaria di quella che abbiamo appena riportato:
«La Vittoria, imperiosa, ineluttabile, e al tempo stesso un terribile punto interrogativo che è come la domanda del mondo, la sua questione di vita o di morte. […]
E allora si arriva a comprendere, si arriva a vivere cellularmente e ciecamente con altri occhi che non possiedono ancora un vocabolario né tutti i dizionari degli uomini: l’Evidenza è senza parole, potrebbe magari cantare come quel vecchio condannato nel luogo d’adunata dei campi di sterminio, mentre questo abisso di Tenerezza si apriva sotto i suoi piedi. Incomprensibile abisso. Ma adesso i miei abissi sono aperti e “comprendo” attraverso milioni e miliardi di cellule quello che Sri Aurobindo diceva, dis-velava alcune decadi addietro:
“In ogni particella, in ogni atomo, in ogni molecola, in ogni cellula della Materia, vivono e operano, nascoste, tutta l’onniscienza dell’Eterno e l’intera onnipotenza dello Spirito”» (pagine 156-157).

A questo punto, alla luce di simili considerazioni, o rivelazioni, i “Carnets d’une Apocalypse” — i diari personali di Satprem — assumono il loro vero significato per noi. Quasi giorno per giorno, Satprem ha cercato di annotare questa radicalissima esperienza e questo favoloso dis-velarsi dell’Evidenza.
E quel loto, ancora adesso, è caparbiamente reclinato verso il basso, verso questa nostra terra — e lo sarà sempre, finché la Meraviglia, incarnata e bella, non si manifesterà pienamente nella Materia finalmente liberata dalla dolorosa stretta della morte.

29 luglio 2007

P.S.: nell’8° volume dei Carnets d’une Apocalypse (pubblicato nel 2009 e relativo all’anno 1988), Satprem — a seguito di un’esperienza notturna durante la quale assisteva un morituro — ricorda la visione di Mère relativa alla relazione fra lui e Anubis (vedi Carnets VIII, “Nuit du 3-4 octobre 1988”, pagine 268-269).