CONFESSIONE DI UN CACCIATORE PENTITO

(tratto dal cap. VI del libro autobiografico
“Su questo stesso terreno” di Nata)

Molti, moltissimi anni fa, in Marocco, ero un cacciatore appassionato.
Approfittando dell’abbondanza di selvaggina passavo uno o due giorni della settimana sulle montagne del Rif, cacciando pernici. Mi affascinava l’aspro paesaggio, il gioco dei cani, il riposo sotto gli alberi con i miei compagni di caccia, il tipo di conversazione, alzarmi alle due di notte, i preparativi fatti la sera prima, il buon vino negli otri di pelle di capra, che gli spagnoli chiamano “botas”. Tutto ciò risuonava ai miei sensi come un canto meraviglioso.
Una mattina di maggio uscii con un amico, Garceran, uno spagnolo dell’Andalusia. Decidemmo di fermarci a mezza strada per aspettare l’alba appiattiti presso una grande e impenetrabile macchia di fichi d’India, in attesa dei conigli che, proprio a quell’ora, escono fuori dall’intrico protettore per fare la loro toilette. Poi avremmo proseguito. Ci appostammo infatti non molto lontano l’uno dall’altro in attesa del momento in cui il cielo cominciasse a tingersi di rosa. Il silenzio era assoluto, rotto appena dall’urlo lamentoso di qualche sciacallo lontano. Pensavo compiaciuto alla giornata che mi attendeva, alla mia posizione economica che si faceva ogni mese più brillante, ai miei figli, e convenivo con me stesso che le cose andavano veramente bene. Ero un uomo riuscito.
All’improvviso, con il sorgere del sole, sentii non molto lontano il canto di una quaglia… Un’altra rispose un po’ più lontano… Dio mio! Fu il segnale del risveglio di una meravigliosa natura che forse per la prima volta osservavo come emanazione dell’Imponderabile. Il canto delle quaglie si moltiplicò, si aggiunsero le allodole e le calandre che si innalzavano a grandi altezze cantando la gloria di Colui che era per me uno sconosciuto. Mi giunse il profumo dei fiori e con esso i primi raggi di un sole radioso. Ero là con la mia doppietta fra le mani, dimentico dei conigli, del mio stesso essere, rapito in un’estasi d’amore per tutto quello che mi circondava, per tutta la bellezza che scoprivo nel creato, per il mio compagno, per la pietra su cui sedevo, per quelle spinose foglie di cactus, per il meraviglioso estrinsecarsi della Natura nei suoi tentativi verso la perfezione. Mi accorsi che i miei occhi erano umidi di pianto. Mi alzai e andai incontro al mio compagno che pure si era alzato e veniva verso di me. Non ci dicemmo una sola parola, rimontammo in macchina e partimmo verso il luogo di caccia. «Hai veduto conigli?» gli chiesi.«No se» mi rispose. Capii che anche lui aveva goduto delle mie stesse impressioni e me lo confermò in seguito, con accese parole.
Può darsi che quello fosse il mio ultimo giorno di caccia. Continuai ancora e per molto tempo, spinto da una specie di forza inerziale, ma l’ardore non era più presente, tutto ciò che prima mi risuonava a poesia e pienamente giustificato, aveva perduto valore. Più che cacciare mi trascinavo, prima in auto e poi su per i monti, seguendo svogliatamente il mio cane con qualche raro scoppio di entusiasmo. Quello che prima mi causava eccitazione, incominciò a causarmi pietà. L’uccidere per divertirsi aveva perduto ogni attrazione.
Il Signore si servì della bellezza e dell’armonia del creato per difendere me stesso da me stesso, e per difendere le sue creature minori.