POESIA

Dai tempi più antichi i rishi, poeti-veggenti dell’India, hanno utilizzato parole, suoni e ritmi per esprimere verità soprafisiche. In sanscrito, fin dai primordi rigvedici, non esiste poesia senza un metro (chanda). E per apprezzare una qualunque composizione poetica (padyakavyas) in India si è sempre precisato che la conoscenza e la percezione sottile delchanda è essenziale. Il metro ha sempre avuto una grandissima importanza. Come dice il poeta Dandi nel suo Kavyadarsha, «la conoscenza del chanda è la nave appropriata per coloro che desiderano traversare il profondo oceano della poesia» (sa viddya naustitirshunam gambhiram kavyasagaram). Esiste anzi un vero e proprio Chandashastra(attribuito a un certo Pingala vissuto intorno al secondo secolo a.C.), un ‘trattato dei chanda’, considerato uno dei sei Vedanga, concernente sia i metri pracriti che quelli sanscriti. Prova di questo sapiente approfondimento dei diversi chanda, è «l’estremo grado di raffinatezza e elaborazione cui essi portarono l’intero loro sistema metrico» (Indian Wisdom, Monier-Williams), e il fatto che alcuni dei versi ritenuti più sacri vennero personificati e deificati. In sanscrito, le composizioni poetiche (kavyam) possono anche utilizzare una prosa poetica (gadya) sebbene, più frequentemente, si utilizzi la metrica (padya). Generalmente, un verso sanscrito è costituito da quattro padam. I versi sono inoltre suddivisi in gruppi e sottogruppi a seconda del numero di sillabe (akshara) contenute, o della posizione delle sillabe lunghe (guru) e brevi (laghu) all’interno del verso. Questi gruppi e sottogruppi vengono per l’appunto chiamati chandas.
Per poter adeguatamente esprimere una qualsivoglia esperienza, sentimento, emozione o azione, la scelta del giusto chanda è sempre stato considerato altamente importante, poiché ogni metro possiede un suo specifico movimento e riflette uno stato d’animo particolare. Secondo Kshemendra, «occorre riconoscere il rasa, lo stato d’animo, la natura della descrizione e del contesto. Il rasa è, in estrema sintesi, l’intimo “sapore” delle cose, fondamento di tutta quanta l’estetica indiana.
In sanscrito, il chanda è determinato — come si diceva — dalla disposizione di sillabe lunghe (guru) e brevi (laghu). Da qui la prosodia greca e latina (oltre a quella di tutte le lingue indiane posteriori al sanscrito) avrebbero tratto ispirazione per le loro peculiari concezioni del metro poetico. E se andiamo a ricercare le motivazioni interiori legate ai diversi chanda sanscriti, troviamo interessanti intuizioni che ci aiutano a comprendere il valore intrinseco del metro poetico.
Talvolta, infatti, riscontriamo che il nome stesso che identifica un particolare chanda contiene il senso del suo movimento. Per esempio, ‘mandakranta’ è un particolare metro sanscrito che possiede un movimento estremamente lento e un incedere grave, grazie alla massiccia presenza di sillabe lunghe; non a caso il significato letterale del termine è “che procede lentamente”. Il sublime poeta Kalidasa utilizza con grande raffinatezza e maestria questo metro nel suo Meghaduta (‘Il nuvolo messaggero’), nel quale Yaska, rimembrando la propria amata, chiede a una nube di farsi sua messaggera d’amore. Viceversa, il metro detto ‘tvaritagati’ (“rapido procedere”) ha un movimento assai più brioso, determinato dal forte numero di sillabe brevi. Mentre il metro ‘drutavilambita’ (letteralmente, “veloce e lento”) inizia con una serie di sillabe brevi e si conclude con alcune sillabe lunghe (il poeta Bhartrihari ha usato in modo assai efficace questo metro nel suo Nitishatakam).
Altre volte il nome del metro è derivato dalla Natura. Il metro ‘bhujangaprayata’ fa riferimento al movimento zigzagante del serpente, giacché il suo ritmo ricorda effettivamente il procedere sinuoso di questo animale (ne è un bell’esempio l’inno di Shamkara conosciuto con il nome di Bhavanyashtakam). Ancora, il metro ‘shardulavikridita’ (“il gioco della tigre”) è una tipica rappresentazione dei balzi del felino: principia con un ampio balzo che si conclude con un brusco arresto (mediante una cesura dopo la dodicesima sillaba), e infine si chiude con un piccolo balzo.

Il Rig Veda utilizza diversi metri, sette particolarmente frequenti (gayatri, ushnik, anushtup, brihati, panktih, tristup, jagati) e altri sette meno ricorrenti (atijagati, shakvari, atishakvari, ashtih, atyashtih, dhritih, atidhritih), che vanno da un minimo di 24 sillabe totali (gayatri) fino a 76 sillabe (atidhritih). Valmiki nella sua celebre epopea Ramayana utilizza tredici differenti chanda: anushtup, indravajra, upendravajra, vamshastha, indravamsha, vaishvadevi, praharshini, rucira, vasantatilakam, pushpitagra, aparavakritam, sundari, aupachandasikam. E Vyasa nell’immenso Mahabharata ne utilizza 18: anushtup, indravajra, upendravajra, rathoddhata, shalini, vamshastha, indravamsha, bhujangaprayatam, drutavilambitam, praharshini, rucira, vasantatilakam, malini, pancacamaram, shardulavikriditam, pushpitagra, aparavakritam, pramanika.

Anche la prosa poetica è contemplata nella prosodia sanscrita, ma sottosta a regole più rigide rispetto ai versi liberi della poesia contemporanea europea.

Tuttavia il metro, pur importante, non è l’unico elemento da tener presente nella composizione poetica. È solo il mezzo fisico per permettere alle Muse dell’ispirazione di trovare un veicolo adatto attraverso cui esprimersi. E ciò è vero anche in senso inverso: gli stessi dèi, si dice, fanno uso dei chanda per raggiungere la sfera celeste.

Tali concezioni, come si accennava, penetrarono nella cultura greca e latina, dove, del tutto similmente, una determinata serie di ‘piedi’ (sanscrito pada) poetici, sistemati in un ordine regolare, secondo determinati moduli-tipo, danno vita a versi di determinata lunghezza. Notiamo infine che il sanscrito pada possiede il doppio significato di “piede” poetico e di “luce”, alludendo quindi al principio illuminativo della poesia di natura ispirata o rivelata.