Intervento del Prof. Giuseppe Cognetti

Vorrei dire qualcosa su Sri Aurobindo, soprattutto a vantaggio di chi non lo conosce. E dico subito che per me non si tratta solo di una lettura (che possa semplicemente far parte di “quel che si è letto” come si usa dire nel nostro gergo accademico). In realtà la lettura di Sri Aurobindo è una lettura esperienziale, nel senso etimologico della parola: quando uno legge Sri Aurobindo attraversa dei territori da lui attraversati, proprio perché egli “spinge” ad attraversarli. Sri Aurobindo è un filosofo indiano e la maggior parte dei filosofi indiani sono anche dei maestri di vita. Senza voler fare della vuota retorica sulla parola “maestro”, a me piace intenderla nel senso che ciò che il filosofo indiano concettualizza attraverso simboli sono visioni simboliche di ciò che è stato attraversato: si attraversa qualcosa e poi se ne dice. Quindi, la lettura delle loro testimonianze è appunto una lettura che ci fa attraversare territori ignoti. In questo senso la lettura dei testi della compagna di Sri Aurobindo, la Mère, mi ha coinvolto ancora di più.
Mi piace dire qualche parola su Sri Aurobindo come pioniere della inter-culturalità. Sappiamo che il padre di Sri Aurobindo era come ossessionato dalla cultura occidentale e, come ancora ce ne sono, era uno di quelli che tendono a rimuovere completamente la loro tradizione. C'è in questo atteggiamento una, diciamo, legittimità storica, che si accompagna ad un atteggiamento duro nei confronti della cultura patriarcale arcaica: per questo egli voleva che i suoi figli venissero educati in occidente. Così Aurobindo ha studiato in Inghilterra e si è formato nell’ambito della cultura occidentale. Conosceva anche la cultura italiana: Dante, Mazzini; si è occupato anche della tematica risorgimentale, dato che era molto interessato alla politica attiva. Egli ha dunque acquisito le categorie ermeneutiche e filosofiche della cultura della seconda metà dell’800, che sono ben presenti in certi tratti della sua filosofia. Ad esempio io prendo le distanze dall’evoluzionismo di Sri Aurobindo, perché mi pare talvolta articolato in termini molto positivistici, anche se di significato spirituale. Tuttavia, la cornice in cui Sri Aurobindo inserisce le sue profonde intuizioni resta in qualche modo condizionata da alcune ideologie tipiche della seconda metà dell’Ottocento europeo e dei primi del Novecento (Bergson ad esempio). Quando Sri Aurobindo torna in India fa un’attività politica considerevole, nel contempo conosce dei maestri di Yoga e poiché è dotato di una memoria che potremmo definire picomirandoliana, si impadronisce del bagaglio dell’intera cultura tradizionale indù, dai Veda alle Upanishad, alle varie tradizioni del tantrismo. Questo nella creatività del suo spirito gli serve e lo porta a “costruire ponti”, proprio perché la caratteristica tipica dell’aspirazione aurobindiana è quella di costruire ponti. Sri Aurobindo, cioè, non è un filosofo dogmatico. È un pensatore che ha sempre cercato di gettare ponti unificanti, senza però che questi ponti aboliscano le differenze; in questo senso egli è un pioniere della interculturalità, nel senso che anche lui ha ritenuto che la Verità — anche quella con la maiuscola — sia completamente pluralistica e che si tratta quindi di gettare ponti, cioè di dialogare non in senso dialettico, ma in senso dialogico (cfr. la differenza fra dialogo dialettico e dialogo dialogico nel pensiero di R.Panikkar) ed esistenziale, e soprattutto di non fermarsi a determinate visioni unilaterali del mondo. Per cui anche nell’esposizione della “filosofia aurobindiana” si può incorrere in una sorta di dogmatismo aurobindiano affermato come se si trattasse della Verità completa e assoluta.
Il grandissimo merito di Sri Aurobindo è stato quello di mettere a fuoco i contributi della radicatissima e articolatissima tradizione filosofica indiana, Yoga soprattutto, a partire dai Veda sino alle Upanishad e via dicendo, e nel contempo trovare non tanto dei punti in comune con la tradizione dell’Occidente, quanto di far dialogare i due mondi; tenendo però presente che i due mondi hanno dei retroterra filosofici e spirituali del tutto differenti. Da questo punto di vista, quindi, Sri Aurobindo è estremamente importante, perché ha contribuito in maniera decisiva alla costruzione di una possibile filosofia interculturale, che però ancora non c’è e resta un compito dell’avvenire, ed è secondo me la sola filosofia possibile, soprattutto dopo che la multi-etnicità è diventato un fatto quotidiano.
Parlare di Sri Aurobindo in pochi minuti rischia di essere banale. Preferisco quindi mettere l’accento solo su alcune grandi parole-chiave: yoga integrale, trasformazione, mondo o prospettiva sopra-mentale o oltre-mentale.
Noi operiamo all'interno di una cultura che per via di una serie di funzionamenti è nettamente dicotomica. La dicotomia fondamentale che noi abbiamo alimentato nei secoli e nei millenni della nostra cultura è la dicotomia materia-spirito, che noi abbiamo elaborato e formulato in tutte le salse, in tutte le possibili lezioni e varianti. Uno degli sforzi fondamentali di Sri Aurobindo è stato quello di colmare questo divario, presente peraltro anche nella tradizione hindu. L'intera opera di Aurobindo si presenta o può essere vista da questo punto di vista come una critica radicale delle prospettive riduzionistiche, ad esempio la nozione freudiana di sublimazione. Per quanto riguarda il problema della dicotomia di materia e spirito, il problema di Sri Aurobindo è stato quello che Jung chiamerebbe del passaggio dal terzo al “quarto”, ad una piena immanenza insieme trascendente ed ad una piena trascendenza insieme immanente. Cioè una volta che il mondo della ragione, la dimensione spirituale si differenzia — dato che noi usciamo dalla vitalità animale attraverso una serie di rimozioni, di repressioni, di sublimazioni, siamo costretti a differenziare le nostre facoltà superiori, quindi abbiamo bisogno nei confronti dei nostri istinti e pulsioni di fare una attività di netta presa di distanza — a partire da questo, nel momento in cui queste energie che abbiamo rimosso per poter crescere, per poterci individuare e differenziare dall’animale che eravamo, che si dà un ritorno di questo rimosso. Allora noi viviamo esattamente nel tempo in cui il rimosso che ritorna deve essere messo a fuoco in maniera coraggiosa e decisa: bisogna cioè che noi affondiamo nelle radici materiali della nostra vita facendo però un'opera di trasformazione di queste radici. Bisogna cioè che noi affrontiamo direttamente la nostra terra interiore animale; non dobbiamo averne paura, non dobbiamo esorcizzarla né con strumenti culturali o ideologici o psicologici, né tanto meno con una strumentazione di tipo religioso o spiritualistico. A questo proposito io vedo uno degli insegnamenti e delle esperienze fondamentali di Sri Aurobindo, cioè il dialogo con le proprie energie, che possiamo chiamare animali e che trasformiamo, non perché qualcuno ci dice che lo dobbiamo fare, ma perché è questo il nostro dharma, il nostro compito umano. Che consiste appunto nel prendere queste energie, nell'alimentarsene e trasformarle, posto che esse siano realmente trasformabili. In questo senso Sri Aurobindo è un critico dei riduzionismi analitici alla Freud o di altre correnti o tendenze positivistiche. (Freud, ad esempio, presentò la libido attraverso una reductio in primam figuram che rimane sempre quella per quanto la possiamo raffinare o sublimare, per cui i prodotti della cultura sono leggibili in termini di “nient’altro che” e alla fine la vecchia libido sessuale rimane sempre identica a se stessa. Per Jung invece non è così). Sri Aurobindo sostiene che di questo possiamo fare l’esperienza, con riferimento soprattutto ai processi di trasformazione. E questo ha da insegnare soprattutto all’Occidente.
Un’altra parola chiave su cui vorrei mettere l’accento è lo yoga integrale. Sri Aurobindo è stato anche un critico di quegli yoga che corrispondono a uno stato, possiamo dire, non infantile ma di iniziale processo di individuazione degli esseri umani, uno yoga che ha bisogno di enfatizzare soprattutto il momento dell’asceta e dell’ascesi, il momento della spiritualità, perché inizialmente l’essere umano — e ne possiamo fare tutti l’esperienza — se non reprime non rimuove e poi si sente travolto da queste energie che vanno trasformate. Per cui ho bisogno di fare lo spiritualista, ho bisogno di prendere le distanze dalla sessualità, perché essa alla lunga potrebbe soffocarmi o distruggermi, divorarmi o crearmi altre contraddizioni Gli yoga che Sri Aurobindo critica sono quelli dell’ascesi...e chiama il suo yoga integrale perché da questo punto di vista prende atto che gli esseri umani sono “cresciuti” in senso evolutivo, e quindi possono affrontare in maniera diretta queste energie, non hanno più bisogno di un'operazione di presa di distacco, di distanza. Sono entrato proprio nel merito, ma questo merito può essere anche dato dal “Segreto dei Veda”. Dove Sri Aurobindo mostra in realtà come i Veda debbano essere liberati da una lettura di tipo riduzionistico, una lettura quindi di tipo ritualistico. Egli mostra che dentro i Veda è presenta una intuizione del tipo di quella cui abbiamo accennato, ma nei Rishi vedici è espressa in termini che oggi non sarebbero più comprensibili o completamente attualizzabili. Ma sul “Segreto dei Veda” cederei subito la parola agli altri due relatori che ne hanno curato l’edizione italiana.