Mère

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parla del testo teatrale di

SRI AUROBINDO

Perseo il liberatore

Mère, nella Sua Agenda, in una conversazione con Satprem del 6 febbraio 1962 parla del dramma di Sri Aurobindo Perseo il liberatore. Le Sue riflessioni sono estremamente interessanti e perciò le riportiamo per intero (approfittando per correggere qualche errore presente nella traduzione italiana), ricordando che di tale conversazione esiste la registrazione integrale su nastro (ora anche su CD). Come si può notare, Mère rivolge la sua attenzione a un antico dilemma — «sempre lo stesso problema!» — e a cui si troverà di fronte ancora una volta undici anni più tardi: accettare la morte come ‘Volontà del Supremo’, mentre dall’altra parte c’è questo ‘Amore per la Vita’ di cui nella conversazione citata parla per ben due volte. Aggiungiamo anche che le parole di Mère appariranno maggiormente comprensibili solo conoscendo il Suo Lavoro di trasformazione, di cui appunto l’Agenda è il resoconto.

«In questi giorni ho letto Perseus — in parte lo conoscevo già: lo avevamo rappresentato qui, ma non mi aveva interessato granché. Adesso che l’ho letto, invece, mi ha interessato MOLTO. L’ho letto in un altro modo, come leggo ora. E ci ho trovato un’infinità di cose, un’infinità.
Sì, mi sono resa conto che nello spazio di… non ricordo quand’è che l’abbiamo rappresentato, ma tu stavi già qui [venne rappresentato otto anni prima, nel dicembre del 1954]. Da allora è come se fossero passati almeno cinquant’anni. Cinquant’anni di cambiamenti di coscienza.
Ma in pratica continuo ad andare a sbattere sempre contro lo stesso problema.
A considerarlo soltanto come una differenza di atteggiamento interiore, è bell’e spiegato. Ma se è la verità che voglio — la verità vera, al di là di qualsiasi atteggiamento —, allora diventa molto difficile.
Ed è esattamente quello che ho visto alla luce degli avvenimenti descritti nel Perseo. Se il problema non lo prendi in senso generale, ma specifico, fin nel minimo dettaglio… Solo che, purtroppo, appena lo formuli evapora. Soltanto se lo senti concretamente, se lo afferri sul serio, puoi cogliere tutte e due le cose.

[silenzio]

Grosso modo, il problema è questo: non esiste niente che non sia il risultato della Volontà divina.
Sempre lo stesso problema. Sempre lo stesso.
L’antidivino, globalmente uno lo capisce benissimo. Ma nel dettaglio di ogni minuto, nelle scelte — nella scelta tra fare una certa cosa e un’altra: qual è la verità che si nasconde dietro quello che vogliamo e quello che non vogliamo? E non prendo neanche in considerazione il problema di una volontà egoistica o individuale, non c’entra, per carità! Assolutamente.
Appena la cosa tento di dirla, svanisce.
Eppure è qualcosa di molto, molto acuto.
La spiegazione, lo sappiamo, sta nel progresso universale, nel Divenire: quello che deve venire alla luce e quello che cessa di esistere. Fin qui va benissimo: a grandi linee è facilissimo, uno lo capisce perfettamente
Forse il problema nasce proprio dall’opposizione (se opposizione esiste) fra due atteggiamenti che dovrebbero esprimere entrambi il nostro rapporto col Supremo. Uno è l’aderire, non solo volontario ma perfettamente soddisfatto, a tutto quello che ci succede, anche alle ‘peggiori calamità’ (a quelle che per convenzione chiamiamo ‘le peggiori calamità’). Non prendo come esempio la vicenda del Perseo, dato che si spiega benissimo da sé; ma se Andromeda fosse stata una yogini (con i ‘se’ si possono costruire i più assurdi castelli in aria; ma è tanto per tentare di spiegare che cosa voglio dire), avrebbe accettato immediatamente, con estrema facilità, l’idea della morte. Bene, è proprio il conflitto fra questo atteggiamento di pronta accettazione della morte (non sto parlando del Perseo, è solo un esempio per farmi capire), tra accettare di buon grado la morte per l’unica ragione che così vuole la Volontà divina — e il suo amore per la Vita. Questo amore per la Vita. A guardare alla storia [di Andromeda], viene da concludere: “È andata così perché doveva vivere”; e in questo modo uno spiega tutto. Ma non è di questo che io volevo parlare, qui vorrei prescindere da tutte le circostanze della vicenda.
Perché storie del genere succedono davvero nella coscienza della… mi dà sempre fastidio ricorrere a frasi pompose e parole solenni; ma per spiegarmi bene dovrei dire: storie come questa accadono davvero nella coscienza della Madre universale

[silenzio]

Tutto ciò che esiste è automaticamente — è ovvio — espressione della Gioia divina, anche le cose che la coscienza umana sente come le più orribili — questo possiamo capirlo. Ma contemporaneamente c’è questa specie di aspirazione, così intensa da diventare quasi un’angoscia, verso una perfezione del creato che deva ancora venire. E sembra che questa intensità di aspirazione, questa angoscia nel mondo materiale, sia in effetti la preparazione necessaria all’avvento di quella perfezione. Eppure, nello stesso tempo, tutto ciò che esiste è la perfezione dell’istante, perché è TOTALMENTE il Divino. Non esiste nient’altro che il Divino. Quindi c’è simultaneamente questa pienezza di Gioia divina ad ogni istante, in tutto quello che esiste, e quest’aspirazione, quest’angoscia. La difficoltà sta appunto nell’unire le due esperienze, ecco.
Nella pratica capita di passare dall’una all’altra, oppure una sta in primo piano e l’altra più nello sfondo; oppure una è attiva e l’altra passiva. Quando prevale il sentimento di Gioia perfetta, entri in una condizione quasi statica (e contemporaneamente c’è sempre, in secondo piano, la gioia del movimento, ma senza la visione di uno scopo da raggiungere). Quando invece prevale l’aspirazione al Divenire, la gioia dell’istante, la gioia della Perfezione divina si ritira in condizione di stasi.
Ovviamente è quest’alternanza che fa nascere il problema.
Magari dovrà anche essere così. Però lascia un’insoddisfazione — una profonda insoddisfazione.
E proprio nei momenti più completi e più intensi, quando è davvero l’universo a esistere (l’universo, cioè il Divenire del Supremo) col massimo della percezione attiva del Supremo, proprio in quegli istanti mi prende questa… Non si tratta di scegliere fra l’una e l’altra, no: è dal punto di vista dell’agire terra-terra che nasce una specie di problema di priorità. L’istinto — l’istinto di questo corpo, di questo punto d’appoggio nella materia — è aspirare; ma solo perché è stato fatto per l’azione: non si può farne una regola assoluta, è quasi come una sua preferenza casuale.
Una sensazione che la vita consista PROPRIO in questa aspirazione, in quest’angoscia; e che la beatitudine invece porti come naturale conseguenza a uno stato nirvanico — mah, non so…
Ma allora, come aiutare gli altri?… Mica posso dire ‘in tutti e due i modi’! Se dico che vanno bene sia l’uno che l’altro, ricadiamo nello stesso dilemma.
Perciò un problema così ti porta al punto della massima tensione, una tensione tanto acuta da darti l’impressione di non sapere niente, di non capire niente, e che non capirai mai niente neanche in futuro, che tanto tutto è inutile. Allora, quando arrivo a questo punto mi butto sempre dalla stessa parte; dico sempre: “E va bene, io adoro il Signore, tutto il resto non m’importa!”. Entro in uno stato di adorazione… meravigliosa, e poi Lui farà quello che vorrà! E basta.
Ma è una soluzione che potrebbe andar bene solo per chi non è abituato a pensare.

[Satprem:] Il problema è di come agire materialmente?

Sì, alla fin fine è sempre questo il problema.

[Satprem:] Ma è un’azione diversa a seconda che scegli un modo invece dell’altro!

Non lo so. Non so.
Un momento così ce l’ho avuto uno o due giorni fa (adesso non ricordo più esattamente, è stato come un lampo, ma molto interessante), mentre camminavo nella mia stanza: di colpo, come una certezza assoluta di non sapere niente (è continuato anche quando mi sono affacciata al balcone), che io… Ma non c’era nessunissimo ‘io’… c’era un qualcuno che non sapeva niente — ma no, neanche più un ‘qualcuno’, era qualcosa di impersonale, soltanto un… (devo per forza usare delle parole) soltanto il fatto che non era possibile sapere, non si poteva, non c’era niente da sapere, era assolutamente inutile, assolutamente IMPOSSIBILE capire niente, perfino andando al di là della mente; impossibile fare qualsiasi formulazione, non c’era nessuna possibilità di capire. Vedi, era un fatto così assoluto che aiutare gli altri, far progredire la gente, la vita spirituale, la ricerca del Divino, erano tutte chiacchiere, parole e basta! Non c’era più niente, niente era più niente, non c’era niente da capire ed era impossibile capire — impossibile essere. La sensazione di un’incapacità totale. Come una dissoluzione. Proprio così, come se tutto si fosse dissolto: il mondo, la gente, la terra, la vita, l’intelligenza, tutto, tutto, tutto dissolto — uno stato assolutamente negativo. Allora la mia soluzione, sempre la stessa: quando l’esperienza è stata proprio totale, completa, quando non è rimasto più niente, ecco qual è stata l’impressione: “Me ne infischio di tutto (capisci, era sul serio una cosa che si poteva esprimere con le parole più volgari), tanto, io Ti adoro”. Ma l’‘io’ adorante era un qualcosa di assolutamente inconsistente: niente forma, niente essere, niente qualità; esisteva solo quel “Ti adoro” — qualcosa come un ‘io’ che adorava. C’era semplicemente appena un briciolo do ‘io’ per poter dire “Ti adoro”.
E allora da quel momento è stata una Dolcezza inesprimibile, con una Voce dentro… una Voce di dolcezza e di un’armonia! Un suono, senza parole. Ma il senso per me era perfettamente chiaro, più che se fosse stato espresso con le parole più precise: “Ecco, hai avuto il tuo momento più creativo!”.
Ma sul serio! Beh, stupendo!
A questo punto [ridendo], sipario!
È finita con un sorriso ineffabile, come… Come se lì si trovasse la vera origine dell’umorismo. Quella specie di annientamento, di annichilimento di tutto, e poi: “Ecco il tuo momento più creativo!”. Allora mi sono messa a ridere… e basta. Non potevo fare altro che ridere.

[silenzio]

Sarebbero interessanti da tenere, queste cose.
Ma la cosa più impossibile da esprimere è l’inesistenza dell’essere, di un essere individuale. Quando dico ‘io’ non so neanche cosa significhi. Non vuol dire nemmeno totalità, l’universo nella sua totalità, né tanto meno la terra, questa povera, piccola terra piccina, che vedo sempre di più come una cosina che se ne va così, in giro per l’universo. Allora, che cos’è?…

[silenzio]

È un’esperienza che ho in qualsiasi momento: un attimo di concentrazione, di ritiro dall’azione, ed è la Beatitudine. E quando non subentra questo ritrarsi, si mette in moto qualcosa come un’onnipotenza eterna rivolta all’azione, totalmente sostenuta e inglobata da… da Quello. Il potere che si volge all’azione è il primo manifestarsi di Quello, cioè la prima forma di manifestazione di quando Quello comincia a esistere coscientemente. [Mère posa le mani una sull’altra, e senza separarle le gira nei due sensi, come a indicare le due facce di una stessa realtà]. Quindi è qualcosa di indissolubile: non si tratta di due cose diverse, e neanche di due aspetti, perché non sono aspetti (qualsiasi parola è stupida, idiota, priva di senso). È un’esperienza ripetibile a volontà: qualcosa di unico nella sua essenza, che si esprime innumerevolmente, con un potere che sembra crescere sempre di più. Ho ripetuto quest’esperienza quando volevo, in ogni circostanza possibile, compreso quando il corpo sveniva (te l’ho raccontato la volta scorsa). Lo chiamano svenire, ma io non ho perso coscienza neanche per un minuto! Non ho perso coscienza FISICAMENTE neanche per un minuto — e Quello stava lì, presente a tutto, e assisteva. L’esperienza è stata questa.

[Entra Pavitra, per chiedere a Mère una cosa ‘urgente’]

Non sento, sono altrove.

[Pavitra esce]

Ecco come succede: io non mi trovavo qui, eppure ho visto FISICAMENTE — fisicamente, passare qualcosa. Avevo gli occhi chiusi, no?

[Satprem:] Sì, devi aver sentito qualcosa.

L’ho visto.
Non c’è molta differenza, adesso: la mia vista fisica è diventata molto mediocre.

[silenzio]

Capisci quello che dico, oppure le mie sono solo chiacchiere incomprensibili?

[Satprem:] No, no! Per quanto posso, afferro.

È difficile

[Satprem:] La fine di quello che hai detto mi sembra meno…

Ma guarda! Per me invece è la parte più chiara.
È così chiaro! Chiarissimo, però inesprimibile.
Ah, devo andare!… E così non abbiamo combinato niente!
Le parole ci sono, però non hanno senso.

[Satprem:] Sì, certo. Però quando hai tentato di spiegare cos’è questo ‘io’ che sta sullo sfondo, con i sue due aspetti, non ho afferrato molto bene.

È difficile.

[Satprem:] Sono la stessa cosa, no? Non due ‘aspetti’…

Detto in forma intellettuale, sarebbe il Supremo e…

[Satprem:] E la Shakti.

La Madre universale.
Ma quello che cerco di comunicare è la SENSAZIONE (si tratta infatti proprio di una sensazione, non di un sentimento o un’idea… Per me le cose sono concrete, vedi… cominciano a esistere solo quando diventano concrete). Beh, la sensazione concreta è quella che ho cercato di dire: una sensazione che si riforma automaticamente, immediatamente. La testa rimane vuota, silenziosa, immobile, senza niente dentro — vuota, vuota, vuota, immobile, niente dentro, non un pensiero… Niente, niente: solo una specie di sensazione al cubo. E, al limite di questa sensazione, una specie di… non di miscuglio, ma una stretta combinazione di onnipotenza e intensità di gioia. Una pienezza!
Onnipotenza e intensità di gioia.
Perciò se volessi trovare qualcosa di simile a una vibrazione di parole, potrei dire soltanto: “Tu, Tu” — e basta.
Ma perché dire ‘Tu’, dal momento che non c’è nessuna differenza? C’è solo quel tanto di differenziazione perché esista un ‘Tu’. Per la gioia di quel ‘Tu’ — e basta. Eppure non c’è niente che sia ‘altro’.
A me sembra proprio questo il Mistero supremo. Ah, la prossima volta ci sarà un’altra cosa a sembrare il Mistero supremo!… Ma questo è…
È un’esperienza rinnovabile, rinnovabile, rinnovabile: basta fare un piccolo movimento interiore, ed eccola qui.
In fondo, considerando questo Mistero come farebbero tutti quegli stupidi che si credono intelligenti, potremmo dire: ecco quale dev’essere la ragione per cui il Signore ha creato l’universo — per la gioia di questo ‘Tu’.
Se ci capisci qualcosa, mi congratulo con te!
Arrivederci, bambino mio».

L’Agenda di Mère, volume III, 6.2.62

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