SRI AUROBINDO

S A V I T R I

 

Canto I

L’AURORA SIMBOLO

 

Mancava un’ora al sorger degli Dei.

Contro il sentiero del divino Evento,

d’ampia fronte presaga, Notte, sola

nel buio tempio suo d’eternità

giaceva immota al bordo del Silenzio.

Quasi recava, opaco, impenetrabile,

in cieco simbolo, senz’occhi assorta,

dell’Infinito senza corpo il baratro;

zero insondabile occupava il mondo.

Forza del sé caduto e illimitato

destatasi fra un primo Niente e l’ultimo,

sapendo il grembo oscuro da cui sorse,

via dal mistero natale insolubile

e dal lento procedere ferale,

d’estinguersi sperava in vacuo Nulla.

Come in un buio inizio d’ogni cosa,

muta indistinta parvenza d’ignoto,

sempre un inconscio agire ripetendo,

cieco volere sempre prolungando,

cullò l’ignara Forza in sonno cosmico

che accende i soli in creativo sopore

e attrae le nostre vite nei suoi incubi.

Nella trance dello spazio, vana, enorme,

stupore informe senza mete o vita,

ombra errante in un vuoto privo d’anima

respinta ancora in sogni incongruenti,

la Terra abbandonata in cavi abissi

obliava il suo spirito e il suo fato.

Calmi, neutri, vacanti erano i cieli.

Qualcosa allora s’agitò in quel buio:

un moto ignoto, un’Idea non pensata,

insistente, mai pago, senza meta,

ch’esser voleva a non sapeva come,

trasse il Non-conscio a destare Ignoranza.

Un turbo giunse e lasciò un fremito,

fece spazio a un vecchio stanco anelito

nella subconscia grotta illune inerte

e trasalì per quella luce assente,

stropicciandosi gli occhi smemorati

pari a chi, ricercando un sé passato,

del suo desìo trova solo il cadavere.

Come se pure in questo fondo Nulla,

pure in quest’ultima dissoluzione,

si nascondesse un’entità immemore

frutto d’un morto e sepolto passato,

costretta a riesumare sforzo e pena

per ridestarsi in un mondo frustrato.

Una coscienza informe bramò luce

e un vacuo mantico un remoto cambio.

Come il dito d’un bimbo sulla gota

a rammentare il bisogno infinito

alla Madre dei mondi trasognata,

brama infante si strinse al cupo Vasto.

Una breccia invisibile si aprì:

incerta e solitaria lunga linea,

quel sorriso in un cuore disertato,

turbò la riva del sonno di vita.

Giunto dall’altra parte dell’illimite

l’occhio d’un dio scrutò i muti baratri;

perlustrando, solare messaggero

pareva in quella greve pausa cosmica,

nel torpore d’un mondo stanco e infermo,

in cerca d’uno spirito solingo

troppo in fallo per l’estasi perduta.

Evocando in un cosmo senza mente

— messaggio udito in caparbio tacere

— l’avventura di gioia e di coscienza,

sul petto affranto di Natura ottenne

nuovo consenso a vedere e sentire.

Un pensiero attecchì nel vuoto immane,

un senso nacque al fondo delle tenebre,

pulsò un ricordo nel cuore del tempo

come un defunto antico rianimato:

ma l’oblio susseguente la caduta

erose i fitti steli del passato

e da rifare era ciò ch’è distrutto

e l’esperienza occorreva ripetere.

Tutto può farsi col tocco divino.

Una fragile speme osava appena

nell’aspra indifferenza della Notte.

Come sollecitata in mondo alieno,

timido ardire di grazia istintiva,

orfana abbandonata e senza tregua,

raminga meraviglia senz’asilo,

in un remoto cantuccio di cielo

giunse un flebile accenno di prodigio.

Il tocco d’un vibrato che trasmuta,

l’inerte oscuro quietismo persuase

e la beltà stupì le sacre lande.

Mano errante d’incanto di bagliore

lucente al bordo d’un attimo breve,

d’aurea parete e cardine d’opale

porta di sogni schiuse sul mistero.

Una breccia lucente sull’arcano

forzò l’immensità cieca a vedere.

La veste d’ombra scivolando cadde

come dal corpo di un dio reclinante.

E al fragile aprirsi d’un albore,

stille appena di sole a un imperlare

si riversò rivelazione e fiamma.

Breve perpetuo segno accorse in cielo.

Malia di trascendenze mai raggiunte

iridata di glorie dell’Arcano,

messaggio d’immortale luce ignota

ardente sulla soglia del creato,

un’aura portentosa eresse l’alba

e di grandezza inseminò le ore.

Brillò per un istante la deità:

la visione s’accese per un poco

e giunse a coronar l’assorta terra.

Con una gioia e una beltà recondite

in cromatica mistica di glifi,

scrisse i versi d’un mito rilevante

narrando onuste aurore spirituali,

radioso codice iscritto nei cieli.

Quel giorno parve epifania svelare

cui sogni e spemi nostri sono tracce;

splendore arcano da imprecisa meta

si gettò quasi entro l’opaco Inane.

Un nuovo passo infransi i vacui Vasti;

centro d’infinità, un Volto ardente

dischiuse a paradiso eterne palpebre;

Forma di beatitudini giungeva.

Ambasciatrice fra l’eterno e il cambio,

scese la Dea onnisciente dalle altezze

che avvolgono il ruotare delle stelle

e spazi vide aperti al suo cammino.

Si girò appena al suo sole velato

per poi condursi all’opera immortale.

La terra sentì giungere l’Eterna:

udì i suoi passi l’attenta Natura,

la vastità la contemplava illimite

e lei sparse il suo riso sugli abissi:

nei muti mondi arse fuoco di gioia.

Tutto fu un rito e un atto consacrato.

L’aria vibrò fra terra e cielo, unendoli;

l’inno ampio-alato di un vento ieratico

s’alzò e svanì sull’altare dei colli;

l’azzurro accese alti rami in preghiera.

Qui, dove l’ignoranza sfiora abissi

sul muto seno dell’ambigua terra,

dove il passo seguente è sconosciuto

e il Vero siede in groppa al dubbio oscuro,

incerto e amaro campo di fatica

eretto su una vasta indifferenza,

di gioia e pena testimone equo,

sul suolo prono s’irradiò il risveglio.

Qui la visione e il profetico lume

forme ordinarie infiammò di portento;

poi l’afflato divino recedette,

non accolto dall’orbita mortale.

Sulle sue tracce indugiò un sacro anelito,

culto di una presenza e di un potere

troppo perfetti per cuori mortali,

presentimento di sublime nascita.

Breve permane in noi luce divina:

la beltà spirituale offre la vista

e di passione abbiglia la Materia

e in un attimo scioglie eternità.

Qual anima alle soglie della nascita

che unisce il mortal tempo al Senzatempo,

scintilla di deità celata in zolla,

svanire in piani inconsci del suo lustro,

tal transitorio ardor di fuoco magico

si dissolse nel chiaro d’ogni giorno.

Cessò il messaggio e svanì messaggera.

L’uno richiamo, il solingo potere,

trasse in qualche remoto mondo arcano

tinta e prodigio del raggio superno:

gli occhi distolse lei dal perituro.

La sua natura, oltremisura bella,

non poté avvincere gli occhi del tempo;

di realtà troppo mistica allo spazio,

il cielo espulse il suo corpo di gloria:

incanto e rarità oltre non vissero.

Era la luce ordinaria del giorno.

Da tregua alla fatica svincolato,

di nuovo il rombo del ritmo di vita

riprese il ciclo del cercare cieco.

Tutti correvano ai propri atti fissi;

le miriadi fra i rami e nella gleba

seguirono l’impulso dell’istante

e, guida qui con la sua mente incerta,

l’unico a sceverare l’avvenire,

l’uomo prese il fardello del suo fato.

 

Savitri pure si svegliò fra quanti

all’appello brillante s’affrettavano

e, presi al laccio di mere apparenze,

un’effimera gioia reclamavano.

Pari all’eternità da cui giungeva,

mai l’adescarono tali lusinghe;

potenza estranea nel terreno umano,

non rispondeva l’Ospite incarnato.

Il richiamo che desta l’intelletto

al suo avido moto variegato

tingendo l’illusione della brama,

vibrò in cuor suo qual dolce nota aliena.

Non la irretiva il messaggio del tempo.

In lei era l’angoscia degli dèi

nella nostra umana forma effimera,

l’immortale avvinto al perituro.

La sua gioia d’un tempo, oltrenatura,

l’oro celeste non poté serbare

né una base su questa terra labile.

Nel temporale abisso segregata,

l’angusta vita rinnegò il potere,

quel fiero e conscio espandersi e la gioia

da lei portati nella forma umana,

gioia di un’anima che sposa tutte,

chiave di porte fiammanti dell’estasi.

Linfa di brama e pianto chiede il suolo

che nega il dono d’immortale ebbrezza:

alla figlia dell’infinito offrì

fior-di-passione d’amore e condanna.

Vano luceva ormai il sacrificio.

Prodiga della sua ricca deità

si donò all’uomo in essenza e natura,

per radicarvi il suo più vasto sé

e nella loro vita acclimatarlo,

trapianto d’infinito nel mortale.

Restìa al cambio è la terrea natura;

mal sopporta, il mortale, eternità:

teme l’alta divina intolleranza

di quell’assalto d’etere e di fuoco.

Protesta contro la gioia perfetta,

quasi con odio respinge la luce;

trema alla nuda potenza del Vero

e al dolce nerbo del tono assoluto.

Legge d’abisso infliggendo alle cime,

inzacchera i celesti messaggeri:

le sue infime spine pone a scudo

del salvifico tocco della Grazia;

paga i figli di Dio con morte e pena.

Quali lampi di gloria sulla terra,

nell’ignoranza i loro lumi scemano,

traditi, il loro bene volto in male,

la croce in dono a chi offrì la corona,

di loro resta solo un Nome splendido.

Un fuoco giunse, toccò i cuori e stinse;

pochi han colto la fiamma per evolversi.

Troppo altra dal mondo per salvare,

la sua mole non regge un petto ignaro

il cui baratro erutta un diro fiotto,

sua parte di caduta, lotta, strazio.

Vivere in pena, affrontare la morte,

mortale fato l’Immortale assunse.

Ghermita nei grovigli del destino,

in attesa dell’ora del suo scontro,

bandita dalla propria innata gioia,

vestita a lutto di terrestre vita,

celandosi perfino a quanti amava,

la sua deità fu più grande da umana.

Un cupo presagire la estraniava

da quanti lei fece base e stella:

magnanima, taceva rischio e pena,

in sé serbando il dolore a venire.

Simile a chi, assistendo dei ciechi,

porta il fardello d’una specie ignara,

nutrendo il suo nemico col suo cuore,

ignoti l’atto e il fatto che affrontava,

senz’aiuto paventa, freme, osa.

L’alba prevista e fatale era giunta,

in un giorno che parve uguali agli altri.

La Natura procede nel suo viaggio

incurante di vite e anime infrante;

si lascia dietro i caduti e procede:

l’uomo e Dio sono i soli a percepirlo.

Perfino in questo istante di afflizione,

tragico incontro con morte e terrore,

non un grido o un lamento le sortì;

a nessuno svelò il proprio strazio:

calmo il suo volto, muto di coraggio.

Solo il suo sé esterno soffre e lotta;

semidivina la sua parte umana:

spirito aperto allo Spirito in tutto,

natura volta all’intera Natura.

Sola, in se stessa, reggeva ogni cosa;

dentro di sé portava il mondo intero:

dal cosmico tormento il suo tormento,

dalla cosmica forza la sua forza;

suo della Madre universa l’amore.

Contro il male alla vita abbarbicato,

calamità suo distintivo segno,

mistica spada le sue pene rese.

Con mente solitaria e cuore immenso

si diresse al lavoro dell’Eterno.

Prima la vita non le urlava in petto,

nel grembo del torpore della terra,

inerte, nell’oblio abbandonata,

la vita riposava prona, inconscia,

tranquilla e ottusa come stella o pietra.

In faglia di silenzio fra due regni,

lei riposava lontana da affanni,

immemore del duolo di quaggiù.

Poi, vago, lento, un ricordo si mosse,

con un sospiro e la mano sul petto

lei riconobbe il dolore protratto,

profondo, quieto, antico, familiare,

senza sapere come o donde giunse.

Ancora spento rimase il pensiero:

stanchi, svogliati, i sensi della vita

quali operai senza paga di gioia;

la torcia sensoriale non ardeva;

non trovò, il cervello, il suo passato.

Solo terrestrità serbava il calco.

Ma infine si destò, col peso cosmico.

Alla muta chiamata del suo corpo

l’alato forte spirito virò,

virò al giogo d’ignoranza e fato,

virò all’opre e all’affanno dei giorni,

rischiarando un sentiero fra quei sogni

nel rifluire dei mari del sonno.

La sua dimora percepì un influsso

e i vani della vita si riaccesero,

sul ricordo si aprirono le imposte

e s’accosto il pensiero alle sue porte.

Tutto tornò: Amore, Terra, Fato

la circondarono, antichi avversari,

colossi nell’arena della notte:

le deità nate dal tetro Incosciente

giunsero al duello e al tormento divino

e, fra le ombre del suo cuore in fiamme,

al centro cupo del conflitto atroce,

guardiano dell’abisso sconsolato,

della lunga agonia del globo erede,

il volto in pietra del dio-di-Dolore

fissò lo spazio coi suoi occhi vuoti

scorgendo immensa pena, mai l’intento.

Della propria deità spietata afflitto,

legata al trono, attendeva deluso

quel pianto-offerta che lei mai versò.

Tornò l’intero problema delle ore.

Il sacrificio di dolore e brama

offerto dalla Terra all’Immortale

ricominciò sotto la Mano eterna.

Desta, la marcia d’istanti lei resse

e osservò il mondo dal verde sorriso

e udì il grido ignorante dei viventi.

Fra i rumori consueti, in quella scena,

l’anima sua s’oppose a Tempo e Fato.

Immota in sé, raccoglieva le forze.

Quel giorno Satyavan sarebbe morto.

 

[libera traduzione in endecasillabi
realizzata da Tommaso Iorco]