I Sette Sapienti in

CIRCE

(opera poetica di di Tommaso Iorco)


Nel libretto per musica di Tommaso Iorco, i compagni di viaggio di Odisseo vengono fatti coincidere con i sette Sapienti.
Come è noto, con l’epiteto “sette sapienti” (in greco: hoi hepta sophoi) vengono indicate alcune personalità pubbliche dell’antica Grecia vissute in un periodo compreso tra la fine del VII e il VI secolo a.C., esaltate dai posteri come modelli di saggezza pratica e autori di massime poste a fondamento della comune sensibilità culturale greca.
Nonostante siano in genere indicati tra i primordi della coscienza speculativa greca e compaia tra di essi colui che è solitamente considerato come il primo filosofo, Talete di Mileto, non tutti sono da considerarsi pienamente filosofi, poiché il loro interesse era principalmente rivolto alla condotta pratica e non alla speculazione.
Platone fu il primo a enumerare i sette savi. Nel suo Protagora li elenca così:
«Di questi vi era Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, il nostro Solone, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene e per settimo si diceva ci fosse anche Chilone spartano» (Protagora, 343a).
Presto, Misone venne trascurato come una figura di second’ordine, e sostituito da Periandro di Corinto in una lista risalente a Demetrio Falereo, un discepolo di Aristotele. Secondo un’altra ipotesi, risalente già all’antichità, Platone stesso avrebbe sostituito Misone a Periandro, poiché quest’ultimo sarebbe stato odiato a causa della sua tirannia.
Rimane controverso se l’idea di una simile lista sia originale di Platone, o se piuttosto egli non abbia attinto da una tradizione popolare pregressa. È da dire che i singoli nomi sono rintracciabili anche in fonti più antiche, la maggior parte già in Erodoto, sebbene non compaiano come un gruppo a sé stante. Non è nemmeno da escludersi che l’idea dominante sia stata presa a prestito dalla concezione vedica dei Sette Veggeti (saptarshi), descritti nell’Atharvaveda (XII.1.39) come «i principali esecutori della manifestazione cosmica» che, grazie al potere del Tapas, diedero origine alle irradiazioni del Sole-di-Verità, proiettatesi nel Divenire in forma di forze coscienti. In ogni caso, l’elenco di Demetrio ebbe la massima diffusione nell’antichità ed è tuttora quella più comunemente citata. Ecco infatti l’elenco offerto da Diogene Laerzio: «Questi erano ritenuti i (sette) saggi: Talete, Solone, Periandro, Cleobulo, Chilone, Biante, Pittaco.» (Vite dei filosofi, I.13).

Tommaso Iorco fa parlare tali sette savi, mutati però in animali dalla dea Circe. E, nelle loro parole, traspare talvolta una qualche caratteristica o una determinata sentenza a essi attribuita. Infatti, oltre all’attività politica presso le loro rispettive città-stato, a contribuire alla fama dei Sette Savi fu il patrimonio di massime a loro attribuite, che in seguito furono spesso citate nelle orazioni degli antichi. Del pensiero dei sette sapienti non ci è giunta alcuna opera organica, anche se è possibile identificare tratti comuni tra le singole sentenze, che si caratterizzano per la loro lapidaria laconicità. Già Platone lodava tali brevi motti, detti massime gnomiche o sapienziali, come il frutto più pregiato delle riflessioni degli antichi savi. Plutarco ci espone nella sua opera Il convito dei sette Savi alcune loro massime. Ma sono note altre fonti da cui furono attinte le massime dei Sette. In particolare, dopo il Prologo del ‘Ludus Septem Sapientum’ (Il divertimento dei sette sapienti) del poeta romano tardo antico Ausonio, appare sulla scena un Ludius (‘buffone’), che recita le massime più note dei sette savi. E, sebbene non sia dato verificarne con certezza la paternità, dai loro apoftegmi, che in pratica inaugurano la storia del pensiero occidentale, ci è possibile intravedere la formazione di un sapere di tipo etico che si distacca dalle credenze omeriche tradizionali per assumere i connotati propri di un sapere oggettivo e razionale, tipicamente filosofico. È perciò significativo che Tommaso li presenti in forme animali, mentre ragionano con Odisseo, per dirgli che non intendono affatto tornare umani perché è solo da quando hanno assunto una forma animale che hanno trovato la vera giustificazione e il vero senso del loro filosofare!

Provo qui di seguito a offrire qualche verso dall’opera Circe che si può ricondurre a una delle massime celebri di uno dei sette sapienti.
In ordine di apparizione, parto da Periandro di Corinto (625-585), il quale, nella seconda scena del primo Atto, conversa con Odisseo. E, al verso 132 dice: «La pace è bella». Mentre poco dopo aggiunge: «onoro il tutto». Infine, quando Odisseo insiste e cerca di persuaderlo a riprendere forma umana, ribadisce ancora una delle sue più semplici e importanti massime: «La quiete è bella». Infatti, perché mai dovrebbe ritornare agli affanni umani ora che in una forma di gabbiano ha trovato quella tranquillità e quella pienezza che ha sempre agognato? Così, spicca il volo e lascia Odisseo da solo, sulla spiaggia, senza aggiungere parola (“Non rivelare i segreti” era infatti una delle sue maggiori raccomandazioni).
Nella scena successiva (I.III), è la volta del riformatore Pittaco (650-570), uno statista greco che governò Mitilene, sull’isola di Lesbo, congiuntamente con il tiranno Mirsilo, cercando di limitare il potere della nobiltà ed esercitando il potere appoggiandosi alle classi popolari. Odisseo, appena lo vede, cerca di ricordargli immediatamente l’importanza della sua mediazione che «attenua il bieco scranno | di Mitilo tiranno» (vv. 200-201). Ma Pittaco, ora mutato in delfino, gli dice che sarebbe alquanto insensato tornare umano, ora che ha conosciuto la felicità della condizione animale. Uno dei consigli che ha maggiormente elargito in spoglie umane è stato: “sappi cogliere l’opportunità” (gignòske kairon); dunque, aggiunge ora: «da uomo dabbene per tutta | la vita, avend’io, con premura | agli altri indicato la rotta | nel coglier la giusta occasione, | sarò così sciocco e sornione | che un simile aureo consiglio | disprezzi a raggiunta buonora?» (vv. 286-292). Inutile insistere.
Nella seconda scena del secondo Atto avviene il confronto fra Odisseo e Cleobulo di Lindo (nell’isola di Rodi, dove nacque e regnò intorno al 600 a.C.). “Ottima è la misura” (metron ariston) è la sua massima più celebre, ma consigliava anche: “ascolta molto e parla poco”. E così fa nella sua nuova forma di camaleonte, per poi andarsene su queste parole decise e sarcastiche: «Se ogni demente | sul capo portasse | un bianco cappello, | parreste, voi uomini, | un branco di oche» (vv. 402-406).
Biante compare nella scena successiva (II.III). Nato e vissuto a Priene, all’incirca fra il 590 e il 530 a.C., fu un grande oratore e un abile poeta. Era un’altissima lode per il difensore di una causa nel mondo classico dirgli di “essere più abile di un Biante nell’arringa”. E, nella sua forma equina, il saggio chiede subito a Odisseo: «Sai qual è la sventura | peggiore per un uomo?» — «Lodarsi oltre misura?», chiede saggiamente Ulisse. «Trovare un altro uomo!», risponde in modo aspro (vv. 431-434). Per poi lanciarsi in un monologo breve ma sferzante sulla cattiveria umana (è infatti noto il pessimismo realistico con cui affermava che: “i più sono cattivi” — hoi pleistoi kakoi). E “ciò che possiedi di buono, ascrivilo agli dèi, non a te stesso”.
È quindi la volta di Chilone di Sparta (scena seconda, Atto III). Vissuto nel VI secolo a.C., cercò di migliorare il sistema di controllo sui funzionari più alti dello Stato spartano. Pare che dormisse frugalmente e, perciò, quando Odisseo lo scorge in letargo, nella sua forma di orso, si stupisce. Chilone, uscendo dalla sua grotta, gli spiega che «non il portale d’avorio | ma i cancelli d’aureo corno | ho varcato e nella gloria | sono entrato» (vv. 552-555). Era infatti precisa convinzione esoterica, presso gli antichi greci, che il mondo dei sogni avesse due portali d’ingresso: uno in avorio, conducente a sogni illusori e devianti, l’altro in corno, il quale permetteva l’accesso al vero regno onirico, portatore di conoscenze segrete. Si dice anche che Chilone abbia molto meditato sulla morte, lasciandoci aforismi intensi (come il seguente: “vivi memore che ti aspetta la morte, ma altresì vivi pensando a star bene”), perciò non stupisce che Circe lo abbia messo a guardia della grotta che conduce nel regno di Ade, dove Odisseo, come lui stesso gli preannuzia e l’Odissea omerica narra, dovrà calarsi vivo e incontrare Tiresia (vv. 560-565).
Nella terza scena del terzo Atto, Odisseo incontra quindi Talete di Mileto, colui che — secondo le parole di Diogene Laerzio — «per primo ebbe il nome di sapiente, quando a Atene era arconte Damasias; ai tempi di quest’ultimo anche i sette furono chiamati sapienti, come dice Demetrio il Falereo nel Registro degli Arconti». Filosofo e matematico, Talete fu notissimo nell’antichità grazie al suo sapere universale e alla sua saggezza politica; Odisseo nell’opera lirica lo chiama «eclettico intelletto» (v. 587) e «dottissimo sapiente” (v. 598) e viene presentato in forma di falco. Visse all’incirca tra il 624 e il 547 a.C. a Mileto, sua città natale, dove morì. «L’Uno è Ente | senza età», ricorda a Ulisse, il quale gli chiede come mai abbia scelto la forma di un uccello, avendo sempre lodato l’acqua al di sopra degli altri elementi — ma Talete vola via senza fornirgli risposta.
Arriviamo infine a Solone di Atene (640 - 559), il quale acquistò fama come legislatore e riformatore sociale (celebre la sua massima: “uno Stato è ben governato quando i cittadini obbediscono ai magistrati e questi alle leggi”). Qui, in forma di cervo, riconosce la natura altamente imperfetta di tutte le leggi fabbricate dall’uomo — e conclude: «Io m’inchino a quell’unica legge | di Natura, che equa governa | l’universo, immortale e superna». Peraltro, è nota la risposta che egli diede al re Creso di Lidia, sul fatto che di nessun uomo si poteva dire che avesse vissuto una vita felice, fin tanto che era in vita. Inutile stupirsi, perciò, che abbia preferito restare in forma animale.

Così, dopo avere incontrato i sette savi, Odisseo incontra il suo ottavo e ultimo compagno di viaggio: Diogene (Sinope, 412 – Corinto, 323), vissuto in una botte che apparteneva al tempio di Cibele. Distrusse l’unica sua proprietà, una ciotola di legno, vedendo un ragazzo bere dall’incavo delle mani. Alessandro Magno, dopo avergli personalmente fatto visita (nella sua botte!), disse: “Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene”. Era soprannominato ‘il Cinico’, o anche ‘il Cane’ (come racconta Diogene Laerzio nelle Vite dei Filosofi,VI.46, «durante un banchetto gli gettarono degli ossi, come a un cane. Diogene, andandosene, pisciò loro addosso, alla maniera di un cane»). Molti aneddoti su Diogene riportano i suoi comportamenti paragonabili a quelli di un cane, e i suoi elogi per le virtù del cane (non è noto se Diogene sia stato insultato con l’epiteto “cinico” — da kynikos, l’aggettivo derivante da kyon, cane — e abbia scelto di considerarlo un elogio, o se sia stato lo stesso filosofo a sceglierlo per sé. Egli, in ogni caso, riteneva che gli esseri umani vivessero in modo artificiale e ipocrita e che dovessero studiare gli atteggiamenti del cane. Oltre a praticare in pubblico le fisiologiche funzioni corporee senza essere a disagio, un cane mangerà di tutto e non si preoccuperà di dove dorme. I cani vivono nel presente senza ansietà, e non si occupano di filosofia astratta. Inoltre, sanno istintivamente chi è amico e chi è nemico. Al contrario degli uomini, che o ingannano o sono ingannati, i cani riconoscono la verità. Odisseo si meraviglia molto, in effetti, di vederlo in forma di pavone e non di cane, al che Diogene si limita a osservare, in modo alquanto ermetico ma pregno di verità: «Non così la sapienza | ama e regola.»
Diogene fu inoltre il primo ad avere utilizzato il termine “cosmopolita”: interrogato sulla sua provenienza, Diogene rispose: “Sono cittadino del mondo intero” — e si trattava di una dichiarazione sorprendente in un’epoca dove l’identità di un uomo era intimamente legata alla sua appartenenza a una polis particolare. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell’ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Secondo gli aneddoti, Diogene defecava nell’anfiteatro e non esitava a insultare apertamente i suoi interlocutori. I suoi ammiratori lo consideravano un uomo devoto alla ragione e di onestà esemplare. Per i suoi detrattori era un folle fastidioso e maleducato. E tuttavia, Diogene ha una certa somiglianza con la personalità di Socrate, con il quale condivideva l’amore assoluto per la verità. Secondo Diogene Laerzio, Platone definì Diogene «un Socrate impazzito». Queste sue caratteristiche fortemente eversive hanno probabilmente determinato la scelta di Tommaso Iorco nell’affidargli lo scioglimento dell’intreccio di questo mirabile testo di poesia melica.

Gaia Ambrosini