Tommaso Iorco

CIRCE
opera lirica in quattro atti

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Edizione ilmiolibro
(stampato per Gruppo Editoriale L’Espresso SpA)


«Questo dramma per musica è molto elegante,
fervido, giocoso e profondo»
Giorgio Bárberi Squarotti (21 febbraio 2010)

«Ho riletto il libretto di Circe e ho pensato
a un aspetto molto significativo del mito antico,
quello della doppia esperienza del divino e del ferino,
con, a metà, l’umano,
sempre tentato dall’una e dall’altra esperienza.
E Tommaso Iorco ha colto perfettamente
questa condizione del mondo.»
Giorgio Bárberi Squarotti (12 febbraio 2011)


Odisseo, nel suo ultimo giorno di permanenza forzata
presso l’isola italica della dea Circe,
intende radunare i propri compagni di viaggio
e organizzare il ritorno in Grecia.
Ma questi, trasformati in animali dalla dea-maga,
sembrano pienamente appagati nella loro attuale condizione
e per nulla intenzionati a riprendere le umane sembianze
o a tornare a casa,
offrendo motivazioni piuttosto convincenti.
Eppure…


La vicenda di quest’opera poetica del poeta Tommaso Iorco trae spunto da quanto narrato da Omero nel Libro X della sua immortale Odissea.
Come è noto, Odisseo (o Ulisse, che dir si voglia), dopo aver preso parte alla guerra di Troia, fa rotta verso casa con un manipolo di compagni ma, prima di riuscire a ritornare nella sua amata Itaca, incorre in una serie di peripezie che costituiscono per l’appunto il ricco intreccio narrativo dell’epopea omerica… Odisseo incontra, tra gli altri, il dio Eolo, il ciclope Polifemo, il lestrìgone Antifàte, le fameliche Sirene e, ovviamente, la dea-maga Circe, sovrana dell’isola di Eèa (forse una delle isole Eolie e, in ogni caso, collegata nel suo simbolismo all’Aurora — Omero, peraltro, precisa che Circe, “dea tremenda”, è “nata dal Sole”, vv. 136-138).
Appena Odisseo sbarca sull’isola, monta in vedetta e nota una casa in lontananza. Decide perciò di inviare in ricognizione i suoi uomini, capeggiati da Eurìloco. Trovata la casa di Circe, i compagni di Odisseo si accorgono che è circondata da leoni e da lupi che, tuttavia, sono mansueti e si lasciano accarezzare. Circe li accoglie in casa con la migliore ospitalità, fornendo loro cibo e bevande ma, alla fine del lauto pasto, li trasforma in animali. Euricolo, che — temendo un inganno — era rimasto nascosto fuori casa, torna alla nave per riferire a Odisseo, il quale decide immediatamente di recarsi da Circe per tentare di farsi restituire i suoi compagni. Per via gli si fa incontro il dio Ermete, il quale gli dona una radice di erba ‘molu’ in grado di contrastare la pozione magica di Circe e lo informa che, per poter riavere i suoi compagni e assicurarsi un ritorno tranquillo in patria, dovrà accettare per un certo tempo le profferte amorose della dea. Grazie a questi stratagemmi, Odisseo non viene trasformato in animale e gode dell’amore di Circe per un intero anno, al termine del quale riprende la rotta verso casa con i suoi compagni, cui viene infine restituita la forma umana.
Questo l’intreccio omerico, narrato all’incirca in quattrocento versi.
Tommaso Iorco, invece, nei quasi mille versi di questo suo testo di poesia melica, si concentra esclusivamente sull’ultimo giorno della permanenza di Odisseo a Eèa e altera sensibilmente il finale della vicenda. Infatti, quando Odisseo chiede a Circe di mantenere la promessa e di lasciarlo partire con i suoi compagni, la dea acconsente, ma a condizione che essi accettino di loro spontanea volontà di tornare umani, manifestandolo esplicitamente. E, per questo, dona loro la facoltà di parola. Così, Odisseo li incontra uno a uno e ciascuno di essi, a turno, gli descrive l’alto grado di felicità e di serena armonia con Madre Natura che sperimenta da quando ha assunto una forma animale, ripudiando perciò la precedente condizione umana, che ora gli appare ancor più fatalmente contraddistinta da una forte dissociazione dalla Natura e fondata su un esasperato senso dell’io separato, fonte di dualismo e di infelicità, di sofferenza, di insoddisfazione e di ogni altro male. Ovviamente, tralascio il finale per non togliere l’effetto-sorpresa e il colpo di scena conclusivo. Così come non mi azzardo a descrivere con quale forza espressiva Tommaso sia riuscito a far parlare i vari personaggi.
Mi limito a effettuare alcune analisi squisitamente letterarie.
Anzitutto, si tratta di “un’opera lirica in quattro atti” come recita il sottotitolo. In parole povere, è un libretto per musica che Tommaso ha scritto. E già qui vi è una prima riflessione degna di nota: i librettisti, nel passato (compresi i grandi nomi che hanno scritto per Mozart, Verdi, Puccini, Rossini), non erano veri e propri poeti, ma semplici uomini di lettere con una buona padronanza della metrica. Tommaso invece è un poeta che ha deciso per libera scelta (per quel suo innato gusto per la sperimentazione e la necessità di confrontarsi con diversi stilemi poetici) di comporre un dramma per musica.
Particolarmente avvincente mi sembra poi la scelta di far figurare gli otto compagni di Odisseo come i celebri “sette Sapienti”, con l’aggiunta di Diogene di Sinope. Le stesse risposte che ciascuno offre a Odisseo rievocano le caratteristiche di questi personaggi, così come ci sono stati tramandati dalla storia o dalle trattazioni filosofiche (vai a I SETTE SAPIENTI IN CIRCE).
Ma, nella tessitura di ogni singolo personaggio, occorre mettere in rilievo un fatto di eccezionale valore artistico: ciascuno si esprime con un suo ritmo ben preciso, mediante l’utilizzo di uno specifico metro poetico che lo caratterizza e lo identifica, in linea con la sua forma animale e con la vibrazione che incarna. Così, nell’ordine, Periandro-gabbiano si esprime in quinari a rima baciata, Pittaco-delfino in novenari rimati abacc, Cleobulo-camaleonte in senari a rima intrecciata, Biante-cavallo in settenari a rima alterna, Chilone-orso in ottonari variamente rimati, Talete-falco in quaternari a rima alterna, Solone-cervo in decasillabi a rima accoppiata, mentre Diogene-pavone utilizza dei distici composti da un settenario e un quinario baciati (che, a leggerli con l’enjambement, risultano essere ciascuno un endecasillabo con rima al mezzo)! Ammirevole è, come sempre in Tommaso, l’eleganza stilistica che forma la trama dell’opera. Odisseo, dal canto suo, utilizza prevalentemente settenari rimati, pur ricorrendo qualche volta all’ottonario; Circe si esprime con settenari rimati e, talvolta, con senari o endecasillabi; mentre le quattro nife che le fanno da ancelle usano quasi sempre settenari rimati. Il ricorso a versi brevi è chiaramente collegato al fatto che, come insegnano i gloriosi librettisti ottocenteschi, sono più facili da trasporre in musica, avendo essi stessi una musicalità che facilita il canto (sia nelle arie, sia nei recitati). Ma vi sono anche ragioni più profonde che attengono, come accennavo, alle caratteristiche sottili che ognuno di questi animali rappresenta, come emerge chiaramente fin dalla prima lettura.
E, soprattutto, ben oltre questi aspetti formali (essi stessi per nulla trascurabili e strettamente legati a scelte inestricabilmente collegate all’essenza stessa del dettato poetico), la vera meraviglia è senza alcun dubbio da ricercarsi nella sostanza, impossibile — come ogni vera opera poetica — a essere incasellata e ridotta entro formulette mentali. È in ogni caso evidentissima anche in questo libretto la consapevolezza che anima tutti i testi poetici di Tommaso, circa l’avvilente stato di enorme incompiutezza che contraddistingue la condizione umana e il bisogno di emergere in un ‘dopo-uomo’ finalmente felice, in gioiosa comunione con il tutto. L’uomo, in questa prospettiva, appare come una sorta di ponte tragico e doloroso (ma necessario) tra la felicità incosciente dell’animale e la beatitudine supremamente cosciente di un essere transumano che per l’Autore, con la veggenza tipica del poeta, pare in via di formazione sulla terra.
Aggiungo infine che la dea Circe, “figlia del Sole”, è qui presentata come un aspetto della Grande Madre, figura costantemente evocata nella poesia di Iorco.

Gaia Ambrosini