Eurasia

di Tommaso Iorco
(autore tutelato SIAE)

È trascorso ormai un intero secolo da quando si iniziò ad avvertire la necessità di trovare una denominazione — quella di “Eurasia”, per l’appunto — che potesse identificare l’immensa area geografica delle popolazioni indoeuropee che, nel corso di diversi millennî, hanno dato vita a quel grande sboccio di civiltà che tutti conosciamo, estremamente multiformi ma sostanzialmente e fortemente affini. E oggi siamo in grado di affermare che lo sviluppo di ogni singola efflorescenza è stata possibile grazie al costante scambio avvenuto fra le varie etnie indoeuropee sin dalla più remota preistoria.
Abbiamo scoperto, come prima cosa, che i principali percorsi di tale interscambio (insieme culturale e commerciale) in Eurasia si snodavano lungo tre grandi assi principali, scorrenti perlopiù in territorio asiatico, e rimasti sostanzialmente invariati nel corso dei millenni. Essi erano costituiti da due grandi vie terrestri e da una grande rotta marittima. Sono la ‘Via Scitica’ tra la Cina settentrionale e l’Eusino, la ‘Via della Seta’ tra la Cina occidentale e il Mediterraneo orientale, e la ‘Rotta delle Spezie’ dall’Indonesia fino alle coste del Mare Arabico.
Tre sono anche le principali ramificazioni culturali diffusesi in Eurasia: la cultura vedica e upanishadica in India, la cultura zoroastriana in Persia e la cultura pagana in Europa. È sempre più evidente il forte legame che unisce insieme queste tre tradizioni, data l’unitarietà di base dei loro miti, delle loro idee-guida, dei loro obiettivi. Volendo portare un esempio, possiamo prendere in considerazione uno dei più antichi miti indoeuropei, di cui si può trovare traccia nella letteratura vedica, incentrato su uno dei temi più cari alla civiltà eurasiatica, ovvero il concetto della rigenerazione, legato al sacrificio volontario compiuto da un determinato dio (il più delle volte incarnatosi in forma umana) deciso a immolare se stesso per permettere l’avvento di una nuova creazione. Ebbene, questo mito esiste in una considerevole varietà di versioni fra i vari popoli indoeuropei. È alla base della leggenda del Re-pescatore, Anfortas, come pure degli innumerevoli riti della fertilità e della primavera, del sacrificio di Shiva Nilakhanta durante il mitico rimestamento dell’oceano primordiale, del poema sulle Purificazioni scritto da Empedocle (oggi esistente solo in frammenti), della saga arturiana dei Cavalieri della Tavola rotonda, di molte fiabe e narrazioni popolari e, a detta di taluni studiosi, del simbolismo della resurrezione di Gesù — fino ad arrivare alla modernità, ispirando in vario modo poeti e scrittori del nostro tempo (basti citare l’eliotiana The Waste Land e il Parcival wagneriano).
Ovviamente, ognuno dei tre rami principali suddetti, con il passare delle epoche protostoriche e storiche, si è arricchito di migliaia di rigogliosi ramoscelli, i quali a loro volta hanno generato foglie e frutti a profusione. In Europa, per fare un esempio, sono nati gruppi etnici culturalmente diversificati, quali i celti, i sassoni, gli slavi, gli scandinavi, i popoli del Mediterraneo — ognuno elaborando le proprie usanze peculiari. Non sono neppure mancate fratture e innesti, come quella rappresentata dalla civiltà semitica, attraverso il cristianesimo e l’islamismo (mentre l’ebraismo possiede precise affinità culturali con la civiltà indoeuropea — e qualcuno ipotizza che il legame fu creato per mezzo dei caldei —, pertanto non la si può considerare completamente estranea).
Ma la cosa che attira maggiormente la nostra attenzione, prima ancora di ammirare le specificità di queste tre grandi ramificazioni del grande albero eurasiatico, è accorgersi che (come ogni pianta che si rispetti!) la radice è comune, nel senso che l’intera civiltà eurasiatica si è sviluppata traendo linfa e vigore dal Rig Veda, il più antico documento scritto esistente al mondo. Ecco perché consideriamo la conoscenza di questo straordinario testo di poesia mistica di importanza fondamentale non solo per gli abitanti dell’India, ma per tutte quelle popolazioni indoeuropee che si sono stanziate in Eurasia — perciò, tutta quanta l’Europa ne risulta fortemente coinvolta. Ed è proprio per questo motivo che i primi due volumi della nostra collana, intitolata per l’appunto EURASIA, risulteranno essere la traduzione del libro The Secret of the Veda di Sri Aurobindo, contenente lo svelamento del “segreto dei Veda” che, visto in quest’ottica (che è poi quella dello stesso Sri Aurobindo), ovvero come la prima testimonianza scritta della civiltà eurasiatica, acquista per noi un valore del tutto eccezionale, mettendo chiaramente in luce, dietro la superficie naturalistica degli inni rigvedici, il vero senso esoterico e mistico celato nella poesia altamente simbolica e illuminata di questi antichi veggenti, i progenitori dell’intera cultura indoeuropea. Sri Aurobindo pubblicò per la prima volta — a puntate — i capitoli di tale opera fra il 1914 e il 1920 sulla rivista filosofica “Arya” da lui stesso diretta; tale rivista era scritta interamente in inglese ed era destinata a un certo numero di sottoscrittori indiani e europei, pertanto era stata concepita come una “rivista della grande sintesi”, vòlta per l’appunto a ricollegare Oriente e Occidente sulla base di una comune origine. Così, quando Sri Aurobindo parla dei veggenti vedici come dei «nostri antichi progenitori», non si riferisce soltanto agli indiani, ma a tutti i popoli dell’Eurasia. Insomma, il Rig Veda è il più antico documento esistente della nostra cultura. È bene ribadire che Sri Aurobindo non appartenne mai ad alcuna religione vecchia o nuova, pertanto l’approfondimento del Rig Veda iniziò soltanto perché si accorse che — per citare le sue stesse parole — «i mantra vedici illuminavano di una luce nitidissima certe esperienze interiori molto particolari che avevo avuto e di cui né la psicologia europea, né le varie scuole yogiche, né l’insegnamento del Vedânta erano mai riusciti a darmi una spiegazione soddisfacente» (The Secret of the Veda).
Quali sono dunque le caratteristiche salienti della civiltà sviluppatasi nelle popolazioni indoeuropee?
Anzitutto, il principio dell’evoluzione: si tratti dell’evoluzione della coscienza o di una evoluzione biologica, la cultura eurasiatica possiede questa profonda consapevolezza di un costante progresso — talvolta enfatizzando quello interiore, talaltra quello esteriore, oppure, come nell’India vedica, equilibrando la padronanza di sé (swaraja) con quella sull’ambiente circostante (samraja), in una ideale armonia spirituale fra il dentro e il fuori.
Poi si produssero la frattura e l’innesto ai quali si cennava. La frattura avvenne in India, causata dal buddhismo (e in particolare da alcune scuole filosofiche nichiliste) e dalla filosofia mayavada, mentre in Europa l’innesto fu quello della cultura giudaico-cristiana, avulsa dal concetto di evoluzione. Frattura e innesto che crearono una rigida demarcazione fra la vita mondana e quella extramondana, attraverso l’assurdo sillogismo secondo cui chi ama Dio non può amare il mondo e chi ama il mondo non può amare Dio. In Europa, quei mistici cristiani che rifiutarono la spaccatura e che al contrario cercarono di colmare lo iato, come ad esempio Giordano Bruno (il quale seppe vedere Dio finanche nella materia), vennero considerati eretici e bruciati sul rogo dell’Inquisizione.
Ora, è tempo di ricucire lo strappo, di ricollegarci alle nostre più genuine radici indoeuropee, trovando finalmente la giusta armonia fra Cielo e Terra, tra Spirito e Materia, visti come necessarî l’uno all’altro. Il Divino non è solo trascendente, è anche immanente, celato nel cuore segreto dell’intero l’esistente. Non a caso un’altra caratteristica saliente della civiltà indoeuropea è il culto della Grande Dea (o Grande Madre), al contempo Regina dei Cieli e Madre Terra.
Prendendo a prestito la terminologia della mitologia europea dei popoli nordici (eurasiatici anch’essi), l’esistenza procede da uno stato iniziale di vuoto — detto Ginnungagap —, dal quale avviene un progressivo risveglio a opera del Fuoco e del Ghiaccio (ovvero, dei due opposti, caldo e freddo, energia e sostanza, azione e riposo) e, attraverso una costante interazione fra questi due elementi opposti ma complementari, ecco che nasce il cosmo, il Midgard di cui parlano i vichinghi. L’esistenza dell’universo, in tal modo formato, procede attraverso una serie di cataclismi, detti Ragnarok — veri e propri crepuscoli degli dèi —, i quali costituiscono precise svolte evolutive che contrassegnano la fine di un’èra e l’inizio di un nuovo e più alto ciclo evolutivo. Ciò determina necessariamente la morte dei vecchi dèi (rappresentanti del morente stadio di civiltà raggiunto dall’uomo) e la nascita di una nuova gerarchia di deità, che rimpiazza la prima nelle Distese di Gimli, e che determina, fra gli uomini, il passaggio a uno stadio più evoluto di civiltà.
Ecco: noi abbiamo la forte percezione di trovarci nel bel mezzo di un nuovo crepuscolo e, conseguentemente, di una nuova nascita. Siamo persuasi che i tempi richiedano una visione nuova, sintetica e globale, in grado di abbracciare il meglio delle acquisizioni del passato e, al tempo stesso, capace di lanciarsi con coraggio nell’avvenire. In tal senso, la stessa tradizione giudaico-cristiana ha qualcosa da dirci, beninteso (come pure il buddhismo), purificati da tutte le distorsioni e gli esclusivismi che nel passato hanno caratterizzato il loro ingresso in Eurasia e, soprattutto, armonizzati con le intuizioni dei nostri più antichi progenitori indoeuropei.
Su queste premesse si fonda dunque la nostra collana “Eurasia”.

© Gennaio 2004