NOTE BIOGRAFICHE
di

Pierre Corneille


Pierre Corneille (nato a Rouen il 6 giugno 1606 e morto a Parigi il 1º ottobre 1684) è stato un prolifico e raffinato drammaturgo e scrittore francese, uno dei tre più illustri del XVII secolo, insieme con Molière e Racine. È, quindi, uno dei tre maggiori rappresentanti dell’epoca d’oro del teatro francese.

Gli inizi della sua carriera teatrale sono caratterizzati da un esclusivo impegno nella commedia, in particolare nella cosiddetta “commedia eroica”.
Nel 1629, il primo e il più intricato dei suoi drammi, Mélite, è rappresentato a Parigi con successo. Seguono la tragedia Clitandre (stagione 1630-1631), La vedova (stagione 1631-1632), La galleria del palazzo (stagione 1632-1633), La serva (stagione 1633-1634) e La Place Royale (stagione 1633-1634).

Nella stagione 1634-1635 Corneille, dopo essere stato inserito dal cardinale di Richelieu nella società dei cinque autori incaricati di fornire opere teatrali su commissione, esordisce nel genere tragico con Medea, dello stesso anno; non tralascia però la commedia, nella quale si prova nuovamente con L’illusione comica (stagione 1635-1636), uno dei suoi testi migliori.

Le Cid, rappresentato all’inizio del 1637 (presso il Théatre du Marais), ritenuto tuttora il suo capolavoro assoluto (in italiano è stato egregiamente tradotto, in versi alessandrini, da Guido Davico Bonino), lo consacra maggior poeta di teatro del suo tempo, prestigio in cui durerà, con intermittenze, non oltre il 1670, anno in cui comincia l’ascesa di Jean Racine (di cui non possiamo non ricordare il suo stupendo Fedra, del 1677). E, a dispetto delle polemiche (plagio, non verosimiglianza, assenza di rispetto per le tre unità artistoteliche — perfino la prestigiosa Académie Française si pronuncia con un Jugement, nel dicembre 1637, nel quale le accuse mosse a Corneille vengono in parte confermate, ma che serve se non altro a meglio delineare la drammaturgia classica francese), il re Luigi XIII conferisce a Corneille un titolo nobiliare.

Negli anni a venire la sua produzione continua, copiosa e spesso coronata da successo. In campo tragico sono da citare Orazio (1640), Cinna (probabilmente nella stagione 1640-1641) e Poliuto (stagione 1641-1642): con il Cid formano una sorta di “tetralogia”, nella quale è esaltata la volontà, incarnata dall’eroe che non arretra di fronte al sacrificio di sé, come valore massimo.

La sua carriera drammatica lo vede impegnato in diversi generi: commedia, commedia eroica e tragedia; nel tempo cerca anche di rinnovarsi, ma il suo teatro rimane in qualche modo diviso fra una produzione eroica fortemente tragica, in cui è invariabilmente esaltato il libero arbitrio e in cui anche i personaggi negativi, purché diano prova di energia, sono visti con simpatia, e una produzione comica in cui possono esprimersi più liberamente le tendenze centrifughe, sperimentali, stravaganti della sua arte, che in àmbito comico ha moltissimi punti di contatto con il barocco letterario europeo.

Nel 1647 viene ammesso all’Académie française.
Una delle sue migliori commedie, Le Menteur, scritta nel 1643, influenzerà Goldoni e Molière. Seguono molte tragedie, tra cui per l’appunto la ‘nostra’ Rodogune (1644) e Nicomede(1650), entrambe coronate da successo; mentre il pur pregevole Bertarido (1651-1652), evidentemente troppo inatteso, fallisce. Si può anzi considerare Rodogune come l’ultimo vero canto del cigno di Corneille: mai più riuscirà a raggiungere un uguale livello poetico-drammaturgico.

Comincia così il declino dello scrittore, parallelamente al progressivo scemare delle sue fortune presso la corte; sono anche gli anni duri e inquieti della Fronda. Corneille abbandona momentaneamente il teatro e si consacra alla riflessione sulla sua arte e sul sistema teatrale, dando vita a tre Discorsi.
La sua vecchiaia è triste e si ritrova in difficoltà economiche nonostante Luigi XIV faccia rappresentare spesso i suoi drammi più famosi.
Nel 1659 il ministro delle Finanze, Nicolas Fouquet, lo aiuta economicamente esortandolo a tornare al teatro. Corneille obbedisce, con entusiasmo disperato, mediante Edipo(1659), che segna l’inizio della sua ultima maniera, caratterizzata da un’eloquenza sempre più pomposa, da una messinscena sempre più macchinosa e da una cupa visione della vita; gli eroi dell'ultima decina di tragedie che dà alle scene, tra cui Sertorio (1662) e Surena (1674), sono attempati e spesso angosciati di fronte al destino avverso. Le Muse sembrano averlo abbandonato.

Nel 1670 si trova a confrontarsi direttamente con il giovane Racine, la cui “Berenice” oscura il suo Tito e Berenice. La frustrazione e la rabbia con cui vede ascendere l’astro del classicismo francese, il sempre minor prestigio di cui godono le sue opere, appesantite da una retorica elaborata in modo sempre più artificiale ed eccessivamente sfarzosa, dalle immagini spesso caricate in modo poeticamente insincero, a differenza di quella pura e perfettamente espressa del giovane rivale, gli rendono amari gli ultimi suoi anni di vita, assieme a una lunga malattia. Sic transit gloria mundi...