Perseo il liberatore
dramma lirico in cinque atti

di SRI AUROBINDO


una intervista al traduttore


“Perseus the Deliverer” è stato tradotto
in poesia italiana dal poeta Tommaso Iorco.
Una giornalista ha richiesto un’intervista al traduttore
con l’intenzione di pubblicarla su una rivista,
ma la redazione ha deciso di scartarla
perché “non interessa un grande pubblico”.
Visto che la ‘sbobinatura’ della registrazione
ci è stata gentilmente messa a disposizione,
la pubblichiamo qui di seguito.


— Vorrei che mi parlassi della tua traduzione di “Perseus the deliverer”.

Tommaso: C’è qualcosa in particolare che ti interessa?

— Puoi iniziare a dirci quando è stata realizzata, per esempio.

T.: La prima stesura avvenne una dozzina di anni fa (ho depositato il testo presso la SIAE nel 1994), ma in realtà non l’ho mai messo da parte negli anni successivi. Soprattutto quando è emersa la possibilità pratica di una pubblicazione in forma di libro, mi sono dedicato molto alla sua revisione.

— Se non sbaglio Sri Aurobindo ha scritto parecchia poesia. Perché hai voluto iniziare proprio da questo testo teatrale?

T.: Essendo innamorato di Sri Aurobindo e Mère, ed essendo nel contempo un poeta e un regista teatrale, non potevo non essere affascinato da questa drammaturgia che trovo sublime sotto tutti gli aspetti: l’argomento, lo stile, la sostanza, l’intreccio, il livello d’ispirazione, tutto. È assolutamente sublime e geniale. Devo dire che mi stupisce sempre la totale indifferenza dei teatranti europei (oltre che dei critici di poesia) nei confronti di Sri Aurobindo. Non si può nemmeno dire che non sia apprezzato, perché per apprezzare (o disprezzare) qualcosa, bisogna anzitutto averne una qualche conoscenza. Il fatto invece che trovo clamoroso e sbalorditivo è questa ignoranza che mi appare fortemente sciovinistica nelle sue motivazioni. Tutta la produzione poetica di Sri Aurobindo è pressoché sconosciuta in Occidente, per non parlare poi del suo vero Lavoro, quell’Opera di Trasformazione condotta con l’indispensabile collaborazione di Mère, la sua compagna. In generale, Sri Aurobindo qui in Europa viene considerato un ‘filosofo indiano’, mentre in realtà lui non era affatto un filosofo. Anzi, a quanti gli parlavano di filosofia lui diceva: “Ah, della filosofia… Lasciatemi dire che mai, mai e poi mai sono stato un filosofo»… Sri Aurobindo è anzitutto un’ESPERIENZA VIVENTE, ha letteralmente incarnato una nuova Coscienza, e ha sempre utilizzato la poesia quale strumento espressivo a lui più connaturato.

— Perché allora non hai pensato tu stesso a mettere in scena quest’opera, visto che l’hai tradotta e che ne apprezzi il valore?

T.: [ridendo] Pensarci ci ho pensato, in effetti. Ma purtroppo questo non basta! La messa in scena di un’opera di questo calibro necessita di grossi finanziamenti… fra attori e comparse occorrono una cinquantina di artisti, senza parlare dei tecnici e di tutti quei collaboratori necessari alla buona riuscita della rappresentazione. È sempre stato inaccettabile per me effettuare una mutilazione di un qualunque testo teatrale, metterlo in scena in maniera monca o attraverso dei compromessi — figuriamoci una drammaturgia di Sri Aurobindo! Oltretutto, essendo un’opera teatrale in cui l’elemento per così dire corale svolge un ruolo determinante, occorrerebbero almeno una decina di ottimi attori teatrali per coprire i ruoli più importanti.
Confidenza per confidenza, voglio dirti che i miei sogni su questo testo sono andati anche oltre a quelli di una rappresentazione teatrale. Avendo avuto da ragazzo una formazione non solo teatrale ma anche cinematografica (oltre alla scuola di teatro ho frequentato una scuola di cinematografia), ho realizzato perfino una sceneggiatura cinematografica su Perseus… perciò, come vedi, ci ho pensato sopra parecchio. Nella mia testa, nel mio cuore, mi sono prefigurato sia la messinscena teatrale sia la trasposizione cinematografica. Me li sono visti e rivisti e ho passato dei momenti indimenticabili in questa atmosfera. Se questi sogni si realizzano o meno, in fondo non mi riguarda. Spesso ciò che uno vive interiormente ha più valore di quanto accade all’esterno. L’ideale sarebbe, certo, armonizzare le due cose, ma...

— Stavi dicendo che hai rimaneggiato a lungo la traduzione. Non ti soddisfaceva il risultato?

T.: Beh, la sfida più grossa, per me, nell’affrontare questo testo, era di riuscire da un lato a realizzare una traduzione in poesia italiana, ricalcando quindi l’originale e ricreando su di essa un’opera poetica in italiano, dall’altro volevo che il risultato fosse del tutto compatibile con una eventuale messa in scena (mia o di chiunque altro, ovviamente). Nell’originale, la poesia drammatica di Sri Aurobindo (esattamente come nel caso di Shakespeare) armonizza questi due elementi — poesia e teatralità, intendo — in modo perfetto, vale a dire con estrema naturalezza, senza mai cadute di livello poetico, ma senza che la poesia perda mai quella vitalità oserei dire sanguigna necessaria in un testo teatrale. Ecco; spero di essere riuscito in quest’impresa. In ogni caso, il testo originale posto a fronte della traduzione serve tra le altre cose a far comprendere al lettore che mastica anche solo un poco l’inglese quanto sublime sia il dettato drammaturgico di Sri Aurobindo, di modo che eventuali goffaggini traduttive non siano impropriamente addebitate al testo originale!
Vorrei inoltre cogliere l’occasione per ringraziare due persone che mi hanno aiutato, con i loro suggerimenti, a migliorare questa traduzione nell’ultima finale revisione: Marcella Mariotti e Marilde Longeri. La prima, oltre a essere una attrice teatrale di grande levatura (ha lavorato per anni con Giorgio Strehler), è una profonda conoscitrice della lingua inglese; la seconda è una poetessa dotata di una spiccata sensibilità, ma anche di un bagaglio intellettuale considerevole. Le loro critiche mi hanno aiutato molto a rendere la traduzione più teatrale, più fluida poeticamente, talvolta anche più fedele.

— Hai usato l’endecasillabo per tradurre il ‘blank verse’ dell’inglese.

T.: Sì. Ovviamente in italiano i versi sono più numerosi rispetto all’originale, perché è assolutamente impensabile utilizzare un solo endecasillabo per ogni singolo pentametro giambico inglese. Quasi sempre ciò non è possibile, si sa. La cosa che mi premeva di più era di dare un ritmo poetico il più possibile adeguato, fluido, spontaneo alla lingua italiana. Ecco quindi il ricorso all’endecasillabo, il metro più perfetto e più bello della poesia italiana, ed ecco anche il ricorso continuo all’enjambement. Insomma, credo di aver fatto la scelta giusta. Quello che posso dire è che non è stata una scelta ‘a tavolino’, ragionata. È avvenuto in modo molto spontaneo: traducendo, l’endecasillabo risultava la forma più appropriata, l’unica possibile…

— Scusa se ti interrompo, ma forse bisognerebbe dire qualcosa sull’enjambement… altrimenti rischiamo di fare un discorso troppo tecnico che molti non riusciranno a seguire.

T.: Hai ragione; anche se poi non è così complicato come sembra. In genere un verso poetico è considerato un qualcosa di completo in sé, con uno spazio di silenzio che lo precede e uno che lo segue (e nella lettura di una poesia bisognerebbe tenere conto di questo), mettendo in risalto la forza, il ritmo, la musicalità intrinseca di ogni singolo verso. Generalizzando, si può dire che ogni verso dovrebbe poter avere una esistenza propria anche qualora venisse separato dal suo contesto, che pure concorre — mi riferisco al contesto — a darci la sua piena fruizione quando viene assaporato nell’insieme. Leggendo una lirica ispirata appartenente alla letteratura italiana, come L’infinito di Giacomo Leopardi, per fare un esempio ben noto a tutti, sentiamo che ogni singolo verso possiede una forza in sé, e che l’insieme dei versi si accorda perfettamente e si sussegue con quella incantevole inevitabilità capace di darci una pienezza di godimento dell’insieme. Si tratta di una sorta di edificio architettonico in cui il tutto e le parti operano in perfetta sintonia e ogni singolo dettaglio gioca un ruolo fondamentale nel darci la perfetta armonia dell’insieme. E se ciò è vero per una lirica, ancor più questo è importante in un’opera drammaturgica o, a un livello ancora più complesso di costruzione architettonica, in un poema epico. Ebbene, la caratteristica peculiare di un testo teatrale scritto in poesia, sta nel fatto che la versificazione deve essere il più possibile fluida, scorrevole, per adattarsi al linguaggio parlato (restando tuttavia poesia, senza mai scadere nella prosa o peggio ancora nella lingua parlata di tutti i giorni). Per fare questo, occorre ricorrere all’enjambement, ovvero alla riduzione ai minimi termini (qualche volta addirittura alla soppressione) di quegli spazi di silenzio fra un verso e l’altro cui cennavo prima. Perché quello che in linguaggio teatrale viene chiamato con il nome di “pausa espressiva”, non avviene necessariamente alla fine di ogni verso, ma solo quando lo richiede il dialogo. Quindi bisogna studiare le pause giuste, avendo tuttavia la massima cura di non svilire il ritmo naturale del metro poetico.

— SEMBRA facile tradurre, eh?

T.: Dietro una buona traduzione c’è un lavoro di immensa meticolosità, in effetti. Ma se il lettore ha la percezione della fatica che c’è stata nel tradurre, allora la traduzione non è riuscita. Uno dei segreti di una buona traduzione (ma vale per ogni creazione artistica, in realtà) è proprio questo: un lavoro di grande minuzia e perfezione che culmina in un risultato che appare della massima naturalezza, talmente spontaneo che non ci si potrebbe immaginare qualcosa d’altro. La semplicità è il miglior metro di giudizio. Ma la vera semplicità è diametralmente opposta al semplicismo. Purtroppo, il semplicismo (fare le cose alla svelta, buttarle giù così come vengono, per intenderci) è una caratteristica assai ricorrente nei cosiddetti traduttori di Sri Aurobindo e Mère, perlomeno in italiano. Ci sono persone, spesso animate da un fervore e da una buona volontà davvero encomiabili, che senza conoscere nulla del difficile compito del traduttore si improvvisano traduttori e trovano il modo di pubblicare. In Italia siamo pieni di traduzioni di opere di Mère e di Sri Aurobindo fatte in questo modo.

— Ci puoi fare qualche esempio di traduzioni di questo tipo?

T.: Preferisco di no. E non per motivi ‘morali’ (me ne infischio della morale) —: è che subito ci si erge a ‘giudici’, e questo proprio non mi va. Io stesso sono un traduttore, e per quanto mi sforzi di essere scrupoloso, preciso, rispettoso al massimo dell’originale, chi può dire se ho tradotto non dico nel modo migliore, ma in modo perlomeno accettabile? L’unico che potrebbe permettersi un simile giudizio, è l’Autore del libro tradotto, e nessun altro, evidentemente.
La cosa che invece trovo più imbarazzante è quando incontro qualcuno che mi dice che la sua traduzione gli è stata “dettata” da Sri Aurobindo o da Mère, o che è stata ricevuta “dall’alto”! Una quindicina d’anni fa conobbi un tizio che aveva tradotto Savitri. Mi parlò con grande entusiasmo della sua traduzione e insistette perché ne leggessi qualche canto, precisandomi comunque che lui non era un traduttore e che ha fatto questo lavoro unicamente per se stesso. Vista questa sua ammissione di umiltà, accettai di visionare il lavoro, e quando mi chiese un parere sincero sulla sua traduzione mi limitai a dirgli che secondo me era migliorabile, fornendogli qualche esempio concreto. Ebbene, iniziò a inalberarsi, alzando la voce e difendendo ogni virgola di quella sua traduzione con le unghie e con i denti, arrivando perfino a arrabbiarsi con me. Da allora non l’ho mai più visto, il tizio, ma ti assicuro che ho imparato la lezione e mi guardo bene dall’intervenire in simili circostanze.
Ecco. Ho divagato un po’. In realtà, ho cercato il più possibile di defilarmi per non entrare troppo nel merito di questa mia traduzione. Vorrei concludere aggiungendo soltanto che quanti traducono poesia senza mettere il testo originale a fronte fanno una operazione che non condivido affatto e che mi appare scorretta. Personalmente, preferirei non pubblicare le mie traduzioni poetiche, piuttosto che pubblicarle senza il testo originale a fronte.

— Un’ultima domanda, Tommaso: questa è l’unica opera poetica che hai tradotto di Sri Aurobindo?

T.: No, no, al contrario… ho tradotto quasi per intero la sua produzione poetica! Gli altri testi drammaturgici, le poesie liriche, i due poemi epici — tutto rigorosamente in poesia italiana, ovviamente. [ridendo] Credo ormai che tu abbia capito che stai parlando con un pazzo scatenato!

— Conti di pubblicarne qualcun’altra di queste tue traduzioni?

T.: Beh, questo non dipende solo da me. Vedremo. Chissà. E poi, mi aspetto anzitutto che la cerchia di lettori del Perseo mi dicano se vale la pena proseguire nell’impresa di pubblicare... Pubblicare è un lavoro molto duro, quando non hai sostegni economici. Un altro mio rammarico è che si legge così poca poesia in questi tempi. Sai, Tiziano Terzani sognava una “congiura di poeti”… diceva che solo questo può salvarci dal naufragio collettivo. Ebbene, perché la congiura riesca occorre anzitutto che i Poeti (quelli con la ‘p’ maiuscola) vengano letti, non credi? Mentre oggi, purtroppo, ci sono più poeti che lettori di poesia! La facoltà poetica, nel passato, era associata alla divinazione — e così come non ci si improvvisava àuguri e indovini, nessuno avrebbe mai osato mettersi a scrivere poesia senza sentire in sé quelle facoltà di veggenza proprie del vate, del bardo. Oggi, invece, basta interrompere la frase andando a capo un po’ a casaccio e si crede immediatamente di essere dei poeti consumati, affrettandosi subito a pubblicare. Io scrivo poesia dall’età di nove anni, ma ho pubblicato il mio primo testo poetico quando di anni ne avevo trentatre. La poesia di Sri Aurobindo, poi, è poesia altamente ispirata, che giunge, nei momenti più alti, a farsi vera e propria rivelazione. Per questo vorrei tanto che gli italiani — i quali godono di una tradizione poetica fra le più notevoli dell’umanità — si avvicinassero alla poesia di Sri Aurobindo. Lui sì che è un rivoluzionario capace di organizzare la più grande congiura che si possa immaginare. E lo sta facendo, a ben vedere! Nel suo modo discreto, silenzioso, per nulla appariscente...

— Credo di avere materiale a sufficienza per ricavarne un articolo. Grazie, Tommaso.

T.: Grazie a te, Chiara. Se vuoi sfrondare fa’ pure. Meglio togliere tutto quello che è ripetitivo o noioso.


[Abbiamo riportato l’intervista per intero, senza tagli,
a dispetto del consiglio finale dell’intervistato]