Tommaso Iorco

D  A  N  A
dramma lirico in cinque atti

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INTRODUZIONE
E NOTE REGISTICHE

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Intorno al III millennio a.C. alcune ondate migratorie dall’India e dalla Persia (che si protrassero almeno per un paio di millennî) diedero vita nel centro Europa a talune civiltà preistoriche durante l’intera età del Bronzo (ca 1.700 - 800 a.C.), da cui derivano i Celti, i quali a loro volta crearono una grande e fiorente civiltà nel corso dell’età del Ferro (ca 800 - 100 a.C.) e durata fino all’800 d.C., travolta dalla romanità pre-cristiana e cristiana e dai popoli germani invasori. Intorno al IV secolo a.C. i celti furono annoverati, insieme agli sciti e ai persiani, fra le popolazioni piú numerose del mondo allora conosciuto (il nome keltoí - talvolta kéltai - fu dato loro dai greci, da cui deriva il latino celtæ). È universalmente riconosciuto il fatto che i celti hanno impresso sull’Europa una impronta indelebile, i cui effetti sono ancora oggi ben visibili.

I tratti caratteristici delle popolazioni celtiche, ereditati dagli indo-arii, si possono riassumere nel culto della Grande Dea (Dana, per l’appunto), da cui derivò una sostanziale armonia fra terra e cielo — assenza di dicotomia fra Spirito e Materia — e la mancanza di una rigida demarcazione fra il naturale e il soprannaturale, un monoteismo che ammette le varie divinità quali poteri dell’Uno (che Giulio Cesare, nel suo De Bello Gallico, indica con il nome di DisPater — corrispondente al sanscrito DyausPità), la divisione castale, la parità dei diritti fra donna e uomo, un’estrema simbiosi con la Natura (e, per conseguenza, il rispetto nei confronti di ogni forma di vita), la molteplicità dei mondi materiali e dei piani della manifestazione, l’eternità del divenire cosmico, l’assenza di dogmi, la legge di causa-effetto (celtico kroui, sanscrito karma), l’immortalità dell’anima e la reincarnazione.

La presente drammaturgia è ambientata in Irlanda. La storia dell’Irlanda si differenzia da quella degli altri paesi europei per una peculiarità: l’isola non ha mai subíto l’occupazione degli eserciti romani o altri e quindi la sua tradizione è rimasta intatta fino all’avvento delle milizie cristiane (V secolo d.C.) e dell’invasione vichinga (VIII-IX sec.). Agli inizi dell'èra cristiana, epoca in cui la presente vicenda drammaturgica è collocata, le tribú (túath) celtiche irlandesi erano raggruppate sotto la dominazione dei Gaeli — insediati nelle regioni di Tara (nel Meath), Cashel (nel Munster) e Croghan (nel Connaught) — sugli altri gruppi: i Cruitni (imparentati con il popolo pre-indoeuropeo dei Pitti) e gli Erainn (o Fir Bolg). Ognuna di queste tribú era governata da un re (gallico rix, latino rex, sanscrito ràjan), a sua volta soggetto al “re supremo” (ard rí) dei gaeli, il quale risiedeva nel palazzo imperiale di Tara in qualità di rí Érenn, "re d'Irlanda".
I celti irlandesi, peraltro, sollevano fra gli studiosi importanti questioni proprio in riferimento al loro collegamento diretto con i Tuath citati, adoratori della dea Dana in epoca precedente l’Età del Ferro. Furono loro, secondo la tradizione, a costruire i megaliti dell’isola e a propagare i principî druidici appresi nella mitica terra Iperborea, ai confini del mondo.

Le tematiche che abbiamo voluto rievocare in quest’opera teatrale sono quelle piú care ai celti, divise in echtrai (“avventure” a carattere soprannaturale), imrama (“viaggi” nell’oltretomba) e fis (“visioni” mistiche o occulte); il tutto condito da quel bérla na filid (“gergo del poeta”) assai caro ai druidi e teso a rivelare cripticamente i segreti piú profondi dell'esistenza.

Nella vicenda drammaturgica si possono individuare lievi reminiscenze della saga dei cavalieri della Tavola Rotonda, essendo Artú un eroe leggendario celtico in rivolta contro i sassoni (con Merlino quale druido); sfrondando il ciclo bretone di tutte le manipolazioni cristiane e accostandolo opportunamente alle avventure di Art figlio di Conn irlandesi e ai racconti gallesi di Mabinogion, è possibile risalire all’antico simbolismo euroasiatico presente nella leggenda del Re-pescatore: avendo agito in modo contrario all’intimo ordinamento che governa tutte le cose, il sovrano causa il guasto del paese, che diviene sterile.
Suo figlio deve riscattare la terra: ottenuto lo scettro magico, simbolo di regalità maschile, egli deve dare inizio alla ricerca della sovranità femminile, l’eredità materna — e, dal momento che la propria madre è morta, dovrà andare a cercarla nell’Altromondo. Superate le prove iniziatiche, potrà infine accedere alla sovranità suprema e rigenerare la terra.

L’azione scenica ruota intorno alla festa celtica di Beltane (corrispondente a calendimaggio), durante la quale si celebrava la vittoria della primavera sull’inverno e che culminava con un falò serale (consuetudine mantenuta presso varie tradizioni popolari in tutta Europa); il 1° maggio rappresentava l’inizio della ‘metà chiara’ dell’anno (samradh), mentre Samain (1° novembre) costituiva l'inizio della ‘metà scura’ (geimredh) e dell’anno celtico.

In merito ai costumi teatrali, si ricorda che l'abbigliamento dei celti irlandesi era composto — per uomini e donne — da una camicia di lino (léine), una tunica corta (inar) e un mantello quadrato di lana (brat) fermato da una spilla (delg) che indicava lo stato sociale della persona (particolarmente famosa era la “spilla di Tara”, indossata dal re supremo). Anche l’acceso colore delle vesti identificava il peculiare grado sociale: il bianco era il colore destinato ai druidi (con il capo coperto da un elmo sormontato da un animale), il rosso era il colore tipico dei guerrieri (flaith), il blu, il giallo e il verde erano i colori delle vesti indossate dalla terza casta, quella degli artigiani, dei mercanti e degli agricoltori (bo-aire — da cui l’italiano ‘bovari’ — ove bo è assimilabile al sanscrito go, ‘armenti’, mentre aire potrebbe derivare da arya, ‘arare, coltivare, faticare’), mentre i servi (mug i maschi, cumal le donne) vestivano di grigio e gli schiavi di nero. I re potevano indossare fino a sette colori diversi combinati insieme: porpora, blu, verde, giallo, bruno, grigio e nero. I vestiti erano comunque composti a strisce o a scacchi e terminavano spesso con frange e, per le classi piú elevate, con intrecci di fili d’oro e ornati con motivi floreali. Le donne indossavano inoltre collane di perle di vetro e bracciali dello stesso materiale, anelli d’oro e di sapropelite, oltre a braccialetti, cavigliere e collane in bronzo (come i famosi ‘torque’, veri capolavori dell’oreficeria celtica, talvolta anche in oro o argento, portati al collo da donne e uomini, come ulteriori segni distintivi). Le vesti venivano raccolte alla vita con una cintura decorata con ornamenti d’oro o di bronzo. La gente comune portava cinture di stoffa o di cuoio, mentre le classi elevate ne indossavano di splendide a catena in bronzo con decorazioni in smalto decorato (in genere bianco o rosso). Le cinture dei guerrieri servivano naturalmente per appendervi la spada, la cui lavorazione ornamentale era frutto di procedimenti di indubbia abilità artigianale (comprendente, fra l’altro, l’incisione diretta, la cesellatura e la fucinatura a stampo) e talvolta perfino di grande valore artistico. Quanto alle scarpe, i celti erano noti come abili fabbricanti di calzature (i loro prodotti venivano commerciati fino a Roma); per la messinscena della presente drammaturgia si indicano in particolare le scarpe di lino (con la suola di cuoio) e gli stivaletti interamente in cuoio. Da ricordare che anche i servi e gli schiavi avevano una loro dignità, sicché, pur vestendo abiti poveri, non indossavano degli stracci e curavano anzi l’aspetto e l’igiene personale. Nelle descrizioni fisiche dei celti effettuate dai greci e dai latini, emerge sempre un ritratto di armonia, di bellezza e di cura per il corpo, indipendentemente dalla classe sociale. E questo atteggiamento era in stretta correlazione con l’insegnamento druidico, teso al rispetto della Materia in quanto forma dello Spirito, aborrendo decisamente l’ascetismo sprezzatore della carne. Madre Natura, al pari di Madre Terra, erano viste quali forme della Grande Madre.
L’insediamento abitativo tipico dei celti ricalca modalità tipicamente indoeuropee, essendo posto sulla sommità di un’altura che ne rendesse facile la difesa (significativamente, i celti stanziati nella penisola iberica, e per ciò detti Celtiberi, chiamavano ‘briga’ le loro città, la cui radice sanscrita bhrg veicola il senso di ‘altura’ e insieme di ‘protezione’ e ‘governo’).
A proposito della messinscena, occorre pure tenere presente che durante i pasti i celti si sedevano su fieno o ó pelli animali, ponendosi in circolo di fronte a tavoli bassi su cui erano posti i cibi (soprattutto carne d’allevamento, frutti di mare e bevande — queste ultime costituite prevalentemente da birra, vino e idromele).
È inoltre opportuno ricordare che la musica (sebbene non sia sopravvissuta alcuna testimonianza concreta) occupava un posto speciale presso i celti, che la presente drammaturgia non poteva certo trascurare. Gli strumenti piú utilizzati per rallegrare le feste (o per spronare i guerrieri in battaglia) erano corni, trombe, cimbali, flauti, timpani. La celebre arpa celtica (cruit, originariamente a sei corde, poi a ventotto) era invece riservata ai re e ai druidi, e veniva privilegiata nell’esecuzione di brani destinati all’accompagnamento di leggende e canti, come supporto emotivo, oppure per intonare melodie capaci di suscitare particolari stati di coscienza (similmente ai ràga indiani): troviamo in tal modo la “melodia del riso” (gentraige), la “melodia del pianto” (goltraige), la “melodia del sonno” (suantraige) e cosí via. Vi era inoltre l’usanza di cantare senza accompagnamento musicale, secondo lo stile sean-nós. Pare si trattasse di arie piuttosto elaborate, basate su delicate variazioni microtonali e tonalità continuamente mutevoli (alcuni musicologi hanno prospettato interessanti parallelismi con i canti degli hindu e dei nativi americani, cosí come diversi linguisti hanno individuato precise e ben documentate analogie fra le strutture metriche celtiche, ivi compresi alcuni stilemi epici e i Veda dell’India).
Infine, la valenza simbolica della drammaturgia utilizza l’ambiente naturale dei celti (vale a dire la foresta) come un riflesso del magico e misterioso intrico del mondo interiore — e anche in questo è stato seguito e rispettato l’immaginario celtico originario.

Tommaso Iorco

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L’immagine, presente sulla copertina del libro, è la foto
di un frammento di vaso raffigurante il volto
della Grande Dea mediante motivi meandrospiralici
e risalente all’arte neolitica (3.500 a.C.).
Il reperto si trova presso il Museo “Giovio” di Como.