I L I O

poema epico di Sri Aurobindo


– LA GUERRA DI TROIA –


aria nuova edizioni


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La guerra di Troia è stata una battaglia combattuta fra gli achei e la potente città di Troia per il controllo dell’Ellesponto (lo stretto dei Dardanelli). È ancora oggetto di studi e controversie la questione sulla veridicità storica degli avvenimenti della guerra di Troia. Quelli che ritengono che la guerra di Troia sia stato un fatto realmente accaduto collocano cronologicamente i fatti verso la fine dell’età del Bronzo, intorno 1300-1200 a.C., in parte accettando la datazione di Eratostene.
Gli eventi della guerra di Troia sono descritti in innumerevoli testi della letteratura greca e latina, dipinti o scolpiti in numerose opere d’arte. Nessuno scritto narra per intero i fatti del conflitto. Si assembla quindi la storia seguendo diverse fonti, spesso contraddittorie fra di loro. I testi più autorevoli sono senza dubbio l’Iliade e l’Odissea di Omero, composti intorno al IX secolo a.C. Entrambi narrano una piccola parte del conflitto: l’Iliade racconta fatti avvenuti durante l’ultimo anno di guerra, l’Odissea il viaggio di Ulisse in patria dopo la conquista della città. Gli altri avvenimenti dello scontro sono tratti dai cosiddetti Poemi del ciclo Epico: i canti Ciprii, l’Etiopide, la piccola Iliade, Iliou Persis, i Nostoi e la Telegonia. Sebbene di questi poemi sopravvivono ormai solo pochi frammenti, abbiano notizia delle trame grazie ai riferimenti di un tale Proclo. Non sappiamo se questo Proclo sia un filosofo neo-platonico del quinto secolo d.C. o un grammatico del II secolo, e nemmeno sappiamo ancora bene chi siano gli autori di questi poemi del ciclo epico. Alcuni datano queste opere intorno al VII o VI secolo a.C, poco dopo i poemi omerici da cui hanno preso spunto, sebbene si pensi che possano anche essere legati a tradizioni precedenti. I poemi di Omero e quelli del ciclo epico prendono spunto dalla tradizione orale. Anche dopo la composizione di questi testi le storie della guerra di Troia furono tramandate oralmente o in forma non poetica. Alcuni elementi narrativi trovati in testi posteriori potrebbero essere desunti proprio da questa tradizione orale. Le storie del conflitto circolarono anche grazie alle immagini dipinte sulle anfore o sui calici. Nei secoli successivi, drammaturghi, scrittori e filosofi presero spunto dagli eventi della guerra di Troia per le loro opere. I tre grandi tragediografi ateniesi, Eschilo, Sofocle e Euripide scrissero molti drammi sui personaggi della guerra di Troia. Fra gli scrittori romani il più importante è senza dubbio Virgilio. Nel II libro dell’Eneide, descrive il sacco di Troia ispirandosi sicuramente ai fatti narrati nei poemi del ciclo epico (specialmente l’Iliou Persis).
La storia che qui riportiamo segue l’ordine di eventi secondo le testimonianze di Proclo, dell’Iliade, dell’Odissea e dell’Eneide, più alcuni dettagli dedotti da altri autori.
Come racconta la mitologia greca, Zeus è diventato re degli dèi detronizzando Crono; Crono a sua volta aveva preso il posto di suo padre Urano. Memore di quanto possa essere crudele la propria progenie, non essendo fedele a sua moglie e sorella Era, avendo avuto molti figli dalle sue tante relazioni, ne aveva timore. Inoltre Zeus capì che la Terra era troppo popolata, inizialmente voleva distruggere l'umanità con fulmini e inondazioni, poi su consiglio di Momo, il dio degli scherzi, o di Themis, decise di favorire il matrimonio di Tetide e Peleo, che avrebbe portato alla fine del regno degli eroi, facendo in seguito scoppiare la guerra di Troia per diminuire la sovrappopolazione, eliminando anche gran parte dei propri figli semidei, possibili usurpatori del trono di capo degli Olimpi.
Zeus venne a sapere da Themis o da Prometeo che un figlio avrebbe potuto detronizzarlo, proprio come lui aveva fatto con il padre. Un’altra profezia aveva inoltre predetto che la ninfa Teti, con cui Zeus tentava di avere una relazione, avrebbe generato un figlio che sarebbe diventato più grande del padre. Per queste ragioni Teti sposò un re mortale molto più vecchio di lei, Peleo. Fece questo o per ordine di Zeus o perché non voleva fare uno screzio a Era che l’aveva allevata da bambina. Tutti gli dei vennero invitati al matrimonio di Peleo e Teti eccetto Eris, la dea della discordia, che fu fermata alla porta da Hermes per ordine di Zeus stesso. Sentendosi insultata, la dea andò su tutte le furie e gettò nel bel mezzo della tavolata una mela d’oro con la scritta Tei Kallistei ("alla più bella"). Era, Atena e Afrodite pensavano spettasse loro di diritto possedere la mela e cominciarono a litigare fra di loro. Nessuno degli dei tentò di favorire con la propria opinione una delle tre dee per non inimicarsi le altre due. Zeus ordinò quindi a Hermes di condurre le tre dee da Paride, un principe troiano, ignaro della sua discendenza reale, che era stato abbandonato appena nato sul monte Ida poiché un sogno premonitore aveva profetizzato che egli sarebbe stato causa della guerra di Troia. Le dee apparvero nude davanti al giovane e siccome Paride non era in grado di dare un giudizio, le tre divinità promisero al giudice dei doni. Atena gli offrì la saggezza, l’abilità bellica, il valore dei guerrieri più potenti, Era il potere politico e il controllo su tutta l’Asia, Afrodite l’amore della donna più bella del mondo, Elena di Sparta. Paride diede la mela a Afrodite. Le due dee che avevano perso andarono via desiderose di vendetta. Il giovane si recò in seguito in città, a Troia, perché gli araldi di Priamo avevano portato via il suo toro migliore per darlo in premio al vincitore di alcune gare sportive organizzate dal re. Paride partecipò ai giochi atletici e sconfisse i nobili rampolli di Troia, vincendo di conseguenza il proprio toro. I giovani troiani, umiliati, volevano ucciderlo ma Cassandra, figlia preveggente del re Priamo, riconobbe in lui il fratello perduto. Priamo decise allora di accettarlo nella famiglia reale, sebbene Cassandra avesse consigliato di non farlo. Dall’unione fra Peleo e Teti nacque un bambino: Achille. L’oracolo predisse che sarebbe morto o vecchio a causa della maturità in una vita tranquilla e priva di imprese, o giovane sul campo di battaglia guadagnando l’immortalità attraverso la poesia degli aedi. Teti tentò di rendere immortale il figlio. Lei provò dapprima a bruciarlo nel fuoco durante la notte per eliminare le sue parti mortali e poi a strofinarlo con ambrosia durante il giorno. Peleo, che già aveva perso sei figli in questa maniera, riuscì a fermarla. Teti lo bagnò allora sul fiume Stige facendolo diventare immortale nei punti toccati dall’acqua. Lei aveva però tenuto il piccino dal tallone che rimase la sua unica parte vulnerabile.
La più bella donna del mondo era Elena, una delle figlie di Tindaro, re di Sparta. Sua madre era Leda che venne sedotta o stuprata da Zeus sotto forma di cigno. Leda partorì quattro gemelli, due maschi e due femmine. Castore e Clitennestra erano figli di Tindaro, Elena e Polluce di Zeus. Secondo un’altra versione del mito, Elena era figlia di Nemesi, la vendetta. Quando giunse in età da marito Elena attirò alla corte del padre una moltitudine di pretendenti desiderosi di prenderla in sposa. Tindaro non sapeva chi scegliere per non offendere gli altri. Infine uno dei pretendenti, Ulisse, propose un piano per risolvere il dilemma, in cambio dell’appoggio di Tindaro per farlo sposare con la nipote Penelope, figlia del fratello di lui Icario. Elena avrebbe dovuto scegliere il marito. Secondo un’altra tradizione Ulisse propose di fare un sorteggio o secondo un’altra, più accreditata, era il padre a scegliere il marito per la sposa (come farà poi Agamennone per ingannare Ifigenia e portarla in Aulide). Vennero inoltre costretti tutti i pretendenti a giurare di difendere il matrimonio di Elena, per chiunque marito venisse scelto. I giovani giurarono sacrificando i resti di un cavallo. Venne scelto come marito Menelao. Quest’ultimo non si era presentato come pretendente alla reggia ma aveva mandato il fratello Agamennone in suo nome. Aveva promesso un’ecatombe di cento buoi a Afrodite se avesse avuto in moglie Elena ma, non appena seppe di essere lui il prescelto, dimenticò la promessa fatta, causando l’ira della dea. Agamennone e Menelao vivevano in quel periodo alla corte di Tindaro perché esiliati da Micene, loro terra natia, dallo zio Tieste e dal cugino Egisto, dopo la morte del padre Atreo, ucciso dallo stesso Tieste. Menelao ereditò dunque il trono di Sparta da Tindaro poiché gli unici suoi figli maschi, Castore e Polluce, erano stati assunti fra le divinità. Agamennone sposò in seguito Clitemnestra, sorella di Elena, e scacciò Egisto e Tieste da Micene, riprendendosi il trono del padre. Durante una missione diplomatica (il recupero della zia Esione rapita da Ercole) Paride si recò a Sparta e si innamorò della bella Elena. Enea, nobile figlio di Afrodite e Anchise, re dei Dardani, accompagnava Paride. Durante il loro soggiorno a Sparta, Menelao dovette recarsi a Creta per i funerali di Catreo, lo zio. Paride, sotto influsso di Afrodite, riuscì a sedurre Elena e a partire con lei verso Troia, portando con sé il ricco tesoro di Menelao. Era, ancora adirata con Paride mandò contro di lui una tempesta, costringendolo a sbarcare in Egitto, dove, secondo Stesicoro, Elena fu sostituita da Nefele, un fantasma con le sue sembianze. Mentre secondo Omero Elena giunse in carne e ossa a Troia. La nave fece scalo a Sidone prima di giungere a Troia. Lì Paride, timoroso di essere catturato da Menelao, perse diverso tempo prima di tornare in patria. Il rapimento di donne non è una storia nuova nella mitologia classica. Ricordiamo Io, rapita da Zeus e trasformata in mucca, Europa, portata via dalla Fenicia e condotta a Creta, Esione, sorella di Priamo, rapita da Ercole ai tempi del re Laomedonte e consegnata a Telamone, re di Salamina, Medea, fuggita insieme a Giasone dalla Colchide. Tutte queste donne erano però orientali portate in Grecia, forse questa volta Paride volle ricambiare portandosi in Oriente una donna greca.
Menelao, tornato a Sparta e scoperto l’inganno, chiese a Agamennone di ricorrere al giuramento fatto dai pretendenti in onore di Elena per radunare un esercito e attaccare i troiani. Agamennone fu d’accordo e mandò il saggio Nestore, re di Pilo, insieme a molti emissari in tutta la Grecia per richiamare i prìncipi e ricordare loro il giuramento fatto.
Odisseo qualche tempo prima si era sposato con Penelope da cui aveva avuto un figlio, Telemaco. Per evitare la guerra si finse pazzo e cominciò a seminare sale per i campi. Palamede, il re di Nauplia, mandato a Itaca per convincerlo, uomo di ingegno arguto, prese il piccolo Telemaco e lo posizionò nel solco su cui avrebbe dovuto passare Odisseo che, non volendo uccidere il figlio, girò da un’altra parte, rivelando però così di essere ancora sano di mente e pronto per partecipare alla guerra. Achille invece era stato nascosto dalla madre a Sciro, mascherato con abiti femminili per non farlo riconoscere agli araldi mandati da Agamennone. Lì Achille ebbe una relazione con Deidamia, figlia del re, e da questa unione nacque Neottolemo, detto anche Pirro (il biondo). Aiace Telamonio, cugino di Achille, il suo vecchio precettore Fenice e soprattutto Ulisse, travestiti da mercanti (secondo altri vi era solo Ulisse, o Ulisse e Diomede), si recarono nella reggia di Sciro per scovare il giovane figlio di Peleo. Vi sono due tradizioni sul riconoscimento dell’eroe. Secondo la prima tradizione Ulisse suonò un corno, chiaro segno di un attacco nemico, e Achille, anziché fuggire come fecero le figlie del re, afferrò una lancia per affrontare i nemici e venne riconosciuto. Nella seconda tradizione, la più famosa, Ulisse portava con sé un cesto con degli ornamenti femminili e una spada bellissima. Achille non osservò i gioielli ma guardò la stupenda arma e per questo venne scoperto da Ulisse e condotto al campo acheo. Secondo Pausania Achille non si nascose a Sciro perché l’isola venne poi conquistata durante la guerra di Troia dal Pelide stesso. Le forze achee si radunarono dunque nel porto di Aulide, in Beozia. Tutti i pretendenti spedirono i propri eserciti eccetto re Cinira di Cipro. Sebbene lui spedì corazze a Agamennone, come stabilito, al posto di spedire le cinquanta navi promesse ne spedì soltanto una vera, mentre le altre erano di fango. Idomeneo, re di Creta, era invece disposto a schierare l’esercito cretese solo a patto che avesse potuto condurre con sé un vice comandante, il nipote Merione. L’ultimo comandante a arrivare fu Achille, che allora aveva soltanto quindici anni. Mentre i re sacrificavano a Apollo per garantire il proprio giuramento, un serpente divorò gli otto piccoli di un nido di passeri e in seguito mangiò anche la madre. Secondo Calcante questo evento era un responso divino, la guerra sarebbe durata per dieci anni.
Le navi sbarcarono ma nessuno sapeva come giungere a Troia. Ci fu dunque un errore di rotta e gli Achei sbarcarono per sbaglio in Misia, dove regnava Telefo, figlio di Ercole, che disponeva oltre degli uomini di Misia anche di un contingente dall’Arcadia, proveniva infatti da questa regione. Durante la battaglia i greci riuscirono a conquistare Teatrante, capitale del regno, e Achille, con la sua lancia, ferì Telefo, che già aveva ucciso Tersandro, re di Tebe. Salvatosi dallo scontro Telefo si recò a Delfi per sapere come poter guarire dalla ferita causatagli dal Pelide che non intendeva rimarginarsi e provocava terribili dolori. L’oracolo rispose che lo stesso feritore l’avrebbe guarito. La flotta achea tornò dunque in Grecia. Achille partì verso Sciro e sposò Deidamia. Le forze greche furono radunata un’altra volta. Telefo si recò in Aulide, travestito da mercante, e chiese a Agamennone di poter essere guarito o, secondo un’altra tradizione, prese in ostaggio il piccolo Oreste, figlio del re di Micene. Achille rifiutò perché non sapeva come fare a guarirlo. Odisseo disse che sarebbe stata la lancia stessa a guarirlo: pezzi di lancia furono raschiati e passati sulla ferita, rimarginandola. Telefo in seguito avrebbe mostrato agli achei come giungere a Troia.
Otto anni dopo lo sbarco in Misia gli eserciti greci furono ancora radunati. Ma non appena le navi giunsero in Aulide il vento cessò di soffiare. Calcante profetizzò che Artemide era offesa con Agamennone perché questi aveva ucciso un cervo sacro o perché lo aveva ucciso in un bosco sacro dicendo di essere miglior cacciatore di lei. L’unico modo di placare Artemide era sacrificare Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra o di Elena e Teseo, affidata alla sorella dopo il matrimonio con Menelao. Agamennone rifiutò la proposta ma gli altri principi minacciarono di fare comandante Palamede se Agamennone non avesse avuto il coraggio di uccidere la figlia. Fu costretto a accettare e richiamò la figlia e la moglie in Aulide col pretesto di voler far sposare Ifigenia con Achille. In un impeto di amore paterno Agamennone mandò una lettera alla moglie, ordinandole di restare a Micene, poiché quella era una trappola ma il messaggio venne intercettato da Ulisse (o da Palamede) che non la spedirono a destinazione. Ulisse e Diomede vennero mandati a Micene per condurre lì la giovane e la famiglia di Agamennone. Clitemnestra venne però a sapere dell’inganno grazie a Achille. Ifigenia, in uno slancio patriottico, decise tuttavia di sacrificarsi per il bene della Grecia. La giovane secondo una prima tradizione morì per il sacrificio, secondo un’altra, quella utilizzata da Euripide, fu scambiata con una cerva da Artemide stessa che la portò in Tauride, designandola come sua sacerdotessa.
Le forze greche erano divise in 28 schieramenti, provenienti da tutta la Grecia, il Peloponneso, le isole di Creta e Itaca. Comprendeva 1178 navi con 50 rematori circa. Tucidide spiega che secondo la tradizione erano approssimativamente 1200 navi, con un numero di uomini variabile, vi era infatti chi, come i beoti, aveva navi con 120 uomini, chi, come Filottete, soltanto cinquanta. Le forze greche andavano quindi da un minimo di 70.000 a un massimo di 130.000 uomini. Un altro catalogo viene dato da Apollodoro che differisce su qualcosa ma è simile a Omero nella suddivisione numerale. Alcuni pensano che Omero abbia preso spunto da reali documenti provenienti dall’età del bronzo. Vengono anche descritti gli schieramenti troiani. Non sappiamo quale lingua parlavano i troiani. Omero spiega che i contingenti alleati di troia parlavano lingue straniere, i comandanti in seguito traducevano gli ordini. Nell’Iliade, inoltre, troiani e achei hanno stessi usi, stessi costumi e stessa religione. Gli avversari parlano inoltre la stessa lingua, probabilmente per produrre un effetto di tipo drammatico.
Filottete era amico di Eracle e poiché accese per lui la pira funebre, incarico che tutti avevano rifiutato, ricevette dall’eroe l’arco e le invincibili frecce intinte nel sangue dell’Idra di Lerna. Lui navigò verso Troia con sette navi. I suoi uomini si fermarono in seguito a Crise per fare rifornimenti o da soli o insieme al resto dell’esercito. Filottete venne in quell’occasione morso da un serpente. La ferita divenne infetta, emanando un cattivo odore. Odisseo avvisò Agamennone dell’accaduto e l’Atride, a causa del puzzo emanato dalla ferita, ordinò che l’eroe venisse abbandonato sull’isola di Lemno. Medone, fratellastro di Aiace Oileo, prese il controllo degli uomini di Filottete. Sbarcati a Tenedo, isola di fronte il lido di Troia, la attaccarono. La città venne difesa dal suo regnante Tenete, figlio di Apollo (secondo altri solo un suo protetto, il vero padre era Cicno). Achille depredò Tenedo e tentò di catturare Emitea, sorella di Tenete che, disperata, chiese agli dèi di poter essere inghiottita dalla terra. E così avvenne. Teti ordinò al figlio di non uccidere Tenete per non incorrere nell’ira del dio ma fece troppo tardi, Tenete era già stato ucciso dal Pelide. Da quel giorno Apollo tentò in tutti i modi di ucciderlo e infatti, quando Paride lo ucciderà, sarà Apollo a dirigere la sua freccia nel tallone. Da Tenedo venne poi spedita una delegazione a Priamo, formata da Menelao, Odisseo e Palamede per chiedere la restituzione di Elena. Ma le loro proposte furono rifiutate. Filottete rimase così per dieci anni su Lemno, un’isola che, secondo quanto dice Sofocle nel "Filottete" era deserta, ma secondo la tradizione era popolata dai minii.
Calcante profetizzò che il primo acheo a toccare la terra troiana dopo essere sbarcato con la sua nave sarebbe morto. Quindi Achille esitò a sbarcare. Infine Protesilao, re di Filache, sbarcò per primo. Achille scese dalla nave dopo di lui e uccise Cicno, un figlio di Poseidone. I troiani fuggirono allora nella sicurezza delle proprie mura. Protesilao dimostrò coraggio e valore, uccidendo diversi troiani ma trovò, primo fra tutti, la morte per mano di Ettore, Enea, Acate o Euforbo (le tradizioni divergono su questo punto). Gli dèi lo seppellirono come un dio sulla penisola Tracia, una regione della Troade. Dopo la morte di Protesilao, suo fratello Podarce guidò le truppe di Filache.
Gli achei assediarono Troia per nove anni. Questa parte della guerra è quella di cui abbiamo il minor numero di fonti, che preferiscono parlare principalmente degli avvenimenti dell’ultimo anno. Dopo lo sbarco iniziale l’esercito venne raggruppato di nuovo per intero soltanto nel decimo anno. Secondo Tucidide tutto ciò era derivato da una mancanza di soldi. I greci fecero scorrerie nelle città alleate di Troia ed esaurirono i profitti agricoli delle regioni della Tracia. Troia non venne mai assediata completamente in questi nove anni, poiché aveva rapporti con i popoli interni dell’Asia minore. Arrivarono infatti rinforzi fino alla fine dello scontro. Gli Achei controllavano semplicemente lo stretto dei Dardanelli, i troiani invece comunicavano attraverso il punto più corto a Abido e Sesto, potendo in tal modo contattare i propri alleati in Europa. Achille era senza dubbio il più attivo fra gli achei. Secondo Omero conquistò undici città e dodici isole. Secondo Apollodoro fece scorrerie nelle terre di Enea, in Troade, derubandolo dei suoi armenti. Lui conquistò Lirnesso, Pedaso e diverse città del circondario. Uccise Troilo, giovane figlio di Priamo, quando questi aveva 19 anni. Un oracolo aveva predetto che se il ragazzo avesse raggiunto il ventesimo anno di vita, la città non sarebbe crollata. Secondo Apollodoro: «Prese anche Lesbo e Focea, poi Colofonie e Smirne, e Clazomane, e Cime; e dopo Egialeo e Teno, le così chiamate cento città; poi in ordine, Adramitio e Sido; poi Endio, e Lineo, e Colono. Prese anche Tebe, in Asia minore, e Lirnesso, e infine Antandro e molte altre città» (Apollodoro, epitomi 3.33). Secondo Cacride questo elenco è sbagliato perché i greci si sarebbero spinti in questa maniera troppo a sud. Altre fonti, come Demetrio, parlano di Pedaso e Monenia, Mithemna, e Pisidice. Dalla divisione del bottino di queste città Achille ottenne Briseide di Lirnesso e Agamennone ottenne Criseide di Tebe. Achille catturò Licaone, figlio di Priamo mentre stava potando gli alberi nel frutteto del padre. Patroclo lo vendette a Lemno dove venne comprato da Eezione che lo rimandò a Troia. Verrà ucciso da Achille più tardi, dopo la morte di Patroclo.
Aiace invase le città della penisola Tracia dove regnava Polimestore, un genero di Priamo. Polimestore abbandonò Polidoro, uno dei figli di Priamo, che lui aveva in custodia. Attaccò poi le città della Frigia, dominate dal re Teleuto che morì in combattimento. Prese come bottino di guerra la figlia di quest’ultimo, Tecmessa. Disperse in seguito le greggi troiane sul monte Ida e nelle campagne. Diversi dipinti su anfore e coppe, descrivono invece un avvenimento non riportato su testi letterari. In un determinato momento della guerra Achille e Aiace stavano giocando a un gioco denominato petteia: immagine. Furono talmente presi dal gioco che dimenticarono di essere nel mezzo di una battaglia. I troiani riuscirono a raggiungerli e solo un intervento di Atena riuscì a salvarli.
Odisseo fu spedito in Tracia per recuperare del grano ma tornò a mani vuote. Sfidò poi Palamede, che l’aveva preso in giro, a fare di meglio. Palamede partì e tornò con un’intera nave piena di grano. Odisseo non aveva mai perdonato Palamede, perché quando era riuscito a condurlo in Aulide, poteva anche rischiare di far morire il piccolo Telemaco mettendolo sotto il solco dell’aratro. Odisseo allora tese contro di lui un inganno. Spiegò il suo piano agli altri capi che, come Agamennone, odiavano le imprese di Palamede e la sua aria da sapientone. Fu contraffatta una lettere di Priamo a Palamede, Odisseo stesso costrinse uno schiavo frigio a scriverla. Fu inoltre messo dell’oro nella tenda di Palamede. La lettera e l’oro furono scoperti e Agamennone ordinò che Palamede venisse ucciso a sassate. Pausania, citando i Cypra, dice che Odisseo e Diomede affogarono Palamede mentre stava pescando, mentre Ditti scrisse che Odisseo e Diomede adescarono Palamede in un pozzo, dove dicevano che questi aveva conservato l’oro ricevuto da Priamo, e lo lapidarono fino a ucciderlo. Il padre di Palamede, Nauplio navigò verso la Troade per chiedere giustizia ma venne rifiutato. Cercando vendetta, Nauplio viaggiò verso le città greche, dicendo alle mogli dei re che presto i loro mariti avrebbero condotto in patria delle concubine per sostituirle. Alcune di esse decisero allora di tradire i propri mariti, come fece Clitemnestra, unendosi a Egisto, il figlio di Tieste. Verso la fine del nono anno i soldati dell’esercito, stanchi di combattere e privi di approvvigionamento, decisero di ribellarsi ai propri comandanti per fare ritorno in patria. Soltanto Achille riuscì a convincere i soldati a rimanere. Secondo Apollodoro, Agamennone rapì le quattro figlie di Anio, sacerdote di Delo, le cosiddette "vignaiole", in grado di far scaturire dal suolo l’olio, il grano e il vino necessari per l’approvvigionamento.
Nel campo dei Greci si diffuse però un'epidemia: era il castigo decretato da Apollo come punizione ai Greci per aver sottratto Criseide al padre Crise, sacerdote del dio. Su consiglio di Calcante, Agamennone accettò di restituire Criseide al padre ma pretese in cambio Briseide, schiava preferita di Achille, sottraendola all’eroe. Scoppiò dunque un litigio fra Achille e Agamennone: Achille decise di non combattere più e rimanere fermo nella propria tenda. Teti, madre di Achille, salì all’Olimpo per supplicare Zeus di rendere giustizia al figlio: il dio acconsentì, subendo i rimproveri di Era, subito placati da Efesto. Zeus inviò il sogno ingannatore a Agamennone. Nelle sembianze di Nestore fece credere al re che fosse arrivato il giorno fatale di Troia. Al risveglio Agamennone convocò i duci achei e li istruì sul suo piano. Voleva far credere all’esercito di voler tornare in patria: i soldati però accettarono esultanti la proposta di tornare e si apprestarono a lasciare la costa quando Ulisse, ispirato da Atena, li convinse a rinnovare la battaglia contro Troia. Le due schiere si affrontarono ancora: alla vista di Menelao, Paride fuggì tra i suoi, ma Ettore lo rimproverò per la sua codardia. Paride decise di affrontare a duello Menelao: le sorti del duello sarebbero state decisive per la guerra. Dopo aver sacrificato agli dèi, i contendenti si scontrarono: Menelao era sul punto di uccidere il rivale quando Afrodite lo salvò e lo riportò a Troia. Agamennone decretò la vittoria per il fratello. Gli dèi erano radunati attorno a Zeus che avrebbe voluto salvare Troia, fu Era a convincere gli altri dèi a chiedere la continuazione della guerra. Zeus allora inviò Atena fra i troiani; ella invitò Pandaro a scagliare una freccia contro Menelao. La freccia ferì l’Atride e la battaglia si rianimò. Pandaro ferì Diomede con una freccia, ma questi, aiutato da Atena, riuscì a uccidere il troiano; stava per uccidere anche Enea quando intervenne Afrodite che salvò il figlio e venne a sua volta ferita da Diomede. Intanto i troiani, guidati da Ares, stavano avendo la meglio. Diomede, sempre con l’aiuto di Minerva, si scontrò con Ares e lo ferì. Le sorti della battaglia volgevano a favore dei greci. Ettore chiese di poter affrontare un campione greco. Dopo alcune discussioni ecco apparire il gigantesco Aiace Telamonio. Il duello si concluse con una tregua, voluta da due ambasciatori, per ordine di Zeus. Il mattino dopo la battaglia ricominciò. I greci, incalzati da Ettore, vennero spinti sempre più verso il proprio accampamento. Con il tramonto del sole si conclusero gli scontri. Ettore e i suoi uomini fecero un accampamento proprio in mezzo al campo di battaglia, spingendo così sempre più i greci verso il mare. Al mattino ricominciò la battaglia. Ettore e gli altri comandanti si scagliarono contro il muro di cinta che proteggeva le navi. I greci spaventati cominciavano a fuggire; soltanto i comandanti più eroici, come i due Aiaci o Idomeneo, incitavano ancora le truppe a difendersi. I troiani, guidati da Ettore, e i lici, guidati da Sarpedonte, riuscirono perfino a far breccia nel muro di cinta greco e a entrare all’interno dell’accampamento. Con una torcia in mano, Ettore riuscì a incendiare una delle navi greche. Patroclo, fedele compagno di Achille, vedendo la battaglia infuriare all’interno del campo greco, supplicò l’amico di concedergli di prendere le sue armi e condurre i mirmidoni al fianco degli altri achei. Achille accettò, ma raccomandò a Patroclo di limitarsi a cacciare i nemici dal campo greco, senza andare oltre. Nel frattempo i troiani erano riusciti a dar fuoco alla nave di Protesilao, ma l’arrivo dei mirmidoni guidati da Patroclo, che essi credevano Achille, li mise in fuga. Patroclo li incalzò fin sotto le mura: gli si oppose Sarpedonte, il comandante dei lici, figlio di Zeus. Il padre degli dèi avrebbe voluto salvare il figlio, ma Era gli vietò di opporsi al destino: Sarpedonte inevitabilmente cadde sotto i colpi di Patroclo, Zeus poté solo limitarsi a trasportare il corpo in Licia, terra nativa dell’eroe. Era però giunta l’ora di Patroclo: Apollo con un gran colpo lo stordì, Euforbo lo colpì con la lancia, ma non era abbastanza valoroso per ucciderlo: fu Ettore che diede il colpo finale. Morendo, Patroclo predisse la prossima morte di Ettore, il quale si impossessò delle armi del morto. Vedendo arrivare il cadavere del fedele amico, Achille si rinchiuse nel proprio furore, decise di accordarsi con Agamennone e di tornare a combattere, armato con le armi forgiate da Efesto. Ripieno di ira si scagliò contro i troiani che spaventati fuggirono, chi correndo verso le mura, chi gettandosi nel fiume Scamandro. Achille non ebbe pietà per nessuno e uccise la maggior parte dei nemici, anche chi spaventato lo supplicava. I troiani si precipitarono all’interno delle mura, eccetto Ettore che rimase davanti alle Porte scee, bloccato dal suo destino; a nulla valevano i disperati richiami dei genitori. Ettore propose a Achille il giuramento di rendere alla famiglia il corpo di quello dei due che verrebbe ucciso, ma il Pelide rifiutò rabbiosamente. Il duello iniziò, le lance volarono senza successo, e nel corpo a corpo Achille trafisse Ettore nel solo punto scoperto, tra il collo e la spalla. Morendo, Ettore presagì la prossima morte del rivale; Achille, accecato dall’odio, forò i piedi del cadavere e legò il cadavere dell’avversario sul proprio cocchio, facendone orribile scempio. Priamo chiese infine a Achille il corpo del figlio. L’Iliade omerica si conclude con i funerali di Ettore.
Poco dopo la morte di Ettore, Pentesilea, regina delle Amazzoni, venne a Troia con il suo esercito. Pentesilea, figlia di Ortrera e di Ares aveva ucciso accidentalmente la sorella Ippolita. Venne purificata per questa azione da Priamo e in cambio lottò per lui e uccise molti greci, incluso Macaone (secondo alcuni Macaone verrà poi ucciso da Euripilo, figlio di Telefo) e, secondo un’altra versione, anche Achille, che venne poi riesumato per ordine di Teti. Pentesilea venne poi uccisa da Achille che, dopo averla uccisa, si innamorò della sua bellezza. Tersite, un soldato semplice, derise Achille per questo suo amore e scanalò fuori gli occhi di Pentesilea. Achille uccise Tersite e, in seguito a una disputa, navigò verso Lesbo per farsi purificare. Venne purificato per il suo assassinio da Odisseo, sacrificando a Apollo, Artemide e Latona. Mentre andavano via, Memnone, re d’Etiopia, figlio di Titone e Eos venne con il suo esercito a aiutare lo zio Priamo. Lui non giunse direttamente dall’Etiopia ma da Susa, in Persia, conquistando tutte le popolazioni fra Troia e la Persia. Condusse così in Troade un esercito formato da etiopi e indiani. Indossava una corazza forgiata da Efesto, proprio come Achille. Nella battaglia che ne seguì, Memnone uccise Antiloco che si fece colpire per salvare il padre Nestore. Achille affrontò Memnone a duello. Zeus pesò il fato dei due eroi, vinse Achille che uccise così l’avversario. Il Pelide inseguì poi i troiani fino in città. Gli dèi, vedendo come Achille aveva già sterminato gran parte dei loro figli, decisero che questa volta era il suo turno. Venne ucciso infatti da una freccia mandata contro di lui da Paride e guidata da Apollo. Secondo un’altra versione venne ucciso da una coltellata mentre sposava Polissena, figlia di Priamo, nel tempio di Apollo, il luogo dove qualche anno prima aveva ucciso Troilo. Entrambe le versioni mostrano come la morte del grande guerriero sia totalmente ingloriosa, Achille era infatti invincibile sul campo di battaglia. Le sue ossa furono mescolate a quelle di Patroclo, furono tenuti giochi in suo onore. Dopo la morte, come Aiace, visse nell’isola di Leuco dove sposò l’anima di Elena.
Dopo la morte di Achille si tenne una grande battaglia per recuperare il corpo dell’eroe. Aiace riuscì a distrarre i troiani mentre Odisseo trasportò via la salma. I generali decisero che l’armatura di Achille sarebbe spettata al guerriero più valoroso. Si fecero dunque avanti Aiace e Odisseo, che avevano recuperato il corpo di Achille. Agamennone, non essendo disposto a fare una scelta così difficile, chiese ai prigionieri troiani chi fra i due aveva causato più danni per la loro città. Secondo consiglio di Nestore vennero mandate delle spie all’interno di Troia per sapere cosa commentavano i troiani sulla battaglia avvenuta poco prima e sul valore di coloro che erano riusciti a recuperare il corpo del Pelide. Una giovane disse che fu Aiace il migliore ma un altro, sotto consiglio di Atena, protettrice di Odisseo, diede il voto migliore al favorito. Secondo Pindaro la decisione fu presa attraverso una decisione segreta dei principi achei. Comunque sia, in tutte le versioni, le armi vennero date a Odisseo. Aiace, impazzito per il dolore, decise di uccidere i giudici di gara ma, per colpa di Atena, scambiò i generali per degli armenti che vennero sterminati. Nella sua furia, scannò due arieti, credendo fossero Agamennone e Menelao. All’alba lui tornò alla normalità e si accorse dell’accaduto. Si uccise allora per il disonore, trafiggendosi con la spada che gli aveva donato Ettore. La spada colpì il fianco o l’ascella, ritenuta da alcuni come il suo unico punto debole. Secondo un’altra tradizione, molto più antica, i troiani lo ricoprirono di creta, costringendolo così all’immobilità e condannandolo a morire di fame.
Nel decimo anno di guerra fu profetizzato da Calcante o da Eleno che Troia non sarebbe crollata senza l’arco e le frecce di Ercole, conservata da Filottete nell’isola di Lemno. Odisseo e Diomede si recarono quindi a recuperare Filottete la cui ferita era guarita. Secondo altri la piaga venne guarita dai medici Macaone e Podalirio. Secondo Sofocle furono Neottolemo e Odisseo a cercare Filottete, secondo Proclo soltanto Diomede. Tornato sul campo di battaglia Filottete uccise, grazie alle sue frecce invincibili, Paride stesso. Secondo Apollodoro, i fratelli di Paride Eleno e Deifobo ebbero una contesa su chi dei due avrebbe dovuto sposare Elena, ora vedova. Deifobo prevalse e Eleno, furioso, abbandonò la città e si ritirò sul monte Ida. Calcante rivelò che Eleno era in grado di profetizzare le condizioni attraverso le quali conquistare Troia. Odisseo tese dunque un’imboscata contro Eleno e lo catturò. Spinto a forza, Eleno disse agli achei che avrebbero conquistato la città se avessero trovato le ossa di Pelope, mandato in guerra il figlio di Achille, Neottolemo, e trafugato il Palladio dal tempio troiano di Atena. I greci recuperarono le ossa di Pelope, precisamente l’osso della spalla, che venne portato a Troia da Pisa e venne perduto a mare sulla via del ritorno; ritrovato poi da un pescatore venne riconosciuto come osso di Pelope dall’oracolo. Più tardi venne spedito Odisseo a Sciro, presso il re Licomede, per recuperare Neottolemo, che viveva lì presso il nonno materno. Odisseo gli diede le armi di suo padre. Secondo Apollodoro Euripilo, il figlio di Telefo, venne in sostegno dei troiani con un esercito formato da Hittiti o Misiaci. Uccise Macaone e Peneleo, uno degli argonauti, ma venne ucciso a sua volta da Neottolemo. Travestito come un mendicante, Odisseo entrò all’interno della città ma venne riconosciuto da Elena. Elena si alleò con Odisseo. Con il suo aiuto, il re di Itaca e Diomede rubarono più tardi il Palladio.
La città venne infine conquistata senza battaglia, con un inganno. Odisseo concepì un nuovo inganno, un gigantesco cavallo di legno, cavo, un animale sacro ai troiani. Venne costruito da Epeo, guidato a sua volta da Atena. Il legno venne recuperato dal boschetto sacro di Apollo. Vi fu scritto sopra: «I greci dedicano questa offerta di ringraziamento a Atena per un buon ritorno» (Apollodoro, Epitomi 5.15). Il cavallo, cavo, venne riempito da soldati. Apollodoro dice che entrarono nel cavallo cinquanta uomini, attribuendo allo scrittore della Piccola Iliade, la concezione secondo la quale entrarono nel cavallo ben tremila uomini, ipotesi assurda secondo Simpson che evidenzia come nei pochi frammenti rimasti vi sia scritto soltanto «i migliori uomini». Secondo Tzetzes ve ne erano ventitre. Quinto Smirneo ne nomina trenta ma dice che all’interno ve ne fossero ancora. Nella tradizione tarda il numero fu standardizzato a quaranta uomini. A capo di questi vi era Odisseo stesso. Il resto dell’esercito abbandonò il campo e si recò con tutta la flotta nell’isola di Tenedo. Quando i troiani scoprirono che i greci se ne erano andati, credendo che la guerra fosse finita, trascinarono gioiosamente il cavallo nella città. Proclo, seguendo la piccola Iliade, dice che i troiani tirarono giù una parte del muro per fare passare il cavallo. Prima di farlo entrare però i troiani discussero sul da farsi. Alcuni pensavano di gettarlo giù da una rupe, altri di bruciarlo, altri di dedicarlo a Atena. Sia Cassandra che Laooconte consigliarono ai troiani di distruggere il cavallo. Cassandra avvertì infatti all’interno del cavallo un contingente nemico, Laooconte l’appoggiò. Ma mentre Cassandra non venne creduta a causa della maledizione di Apollo, dei serpenti, usciti dal mare, divorarono Laooconte e uno dei suoi figli, o entrambi (secondo Virgilio e Igino), o solamente lui (secondo Quinto Smirneo). I troiani decisero allora di portare in città il cavallo e passarono la notte fra i festeggiamenti. Sinone, una spia achea, diede segnale alla flotta, ferma a Tenedo, di partire. I soldati, usciti dal cavallo, uccisero le sentinelle. Alcuni pensano che il cavallo di Troia rappresenti in realtà un terremoto che indebolì le mura, permettendo ai greci di poterle sfondare. Studi archeologici sul settimo strato della città di Troia, quella dell’Iliade, e su alcuni manufatti rinvenuti dimostrano come davvero vi sia stato un terremoto. Alcuni pensano però che sia l’ottavo strato di Troia, quello riguardante la Troia omerica. Altri ritengono che il cavallo sia il pezzo di un apparato di assedio, come dice Pausania: «Il lavoro di Epeo era un’invenzione per creare una spaccatura nel muro troiano. Questa tesi viene riconosciuta da chi non attribuisce sciocchezza assoluta ai frigi» (Pausania 1.23.8). Pausania denomina frigi i troiani. Se seguiamo la tesi secondo la quale all’interno del cavallo vi fossero tremila uomini, ricordiamo che secondo Apollodoro quello era il numero di uomini dell’equipaggio di un helepolis, un’arma d’assedio di età ellenistica. Inoltre nota che spesso gli assiri usarono armi da guerra chiamandole con nomi di animale. Robert Graves pensa che Troia fosse stata conquistata probabilmente con una torre di legno a ruote coperte con pelli di cavallo bagnate per proteggerle dalle frecce infuocate.
Gli achei entrarono così in città e uccisero gli abitanti addormentati. Ne seguì un grande massacro che continuò anche nella giornata seguente: «Il sangue scorreva in torrenti, faceva marcire il terreno, era quello dei troiani e dei suoi alleati stranieri morti. Gli uomini giacevano repressi nella amara morte, tutta la città da su e giù era bagnata del loro sangue» (Quinto Smirneo). Tutto non andò però come volevano gli achei: i troiani, alimentati dall’alcool e dalla disperazione lottarono ancora più ferocemente. Con la lotta al culmine, con la città in fiamme, i nemici si rivestirono delle armi e, con grande sorpresa dei greci, contrattaccarono nei combattimenti caotici in strada. Tutti cercavano di difendere la propria città, lanciando tegole o altri oggetti sulle teste dei nemici che passavano. Il destino dei troiani era però ormai segnato, ormai i nemici avevano fatto una breccia nelle mura, erano sicuri che avesse vinto. Neottolemo uccise Priamo, che aveva trovato rifugio nell’altare di Zeus del proprio palazzo. Menelao uccise Deifobo, marito di Elena, dopo la morte di Paride, mentre questi dormiva e avrebbe ucciso anche Elena se non fosse rimasto abbagliato dalla sua bellezza. Gettò così la spada e la riportò sulla sua nave. Aiace Oileo stuprò Cassandra sull’altare di Atena mentre lei si aggrappava alla statua. A causa dell’empietà di Aiace, gli achei, esortati da Odisseo, volevano ucciderlo a sassate ma lui riuscì a fuggire nell’altare di Atena e a salvarsi. Lo stupro di Cassandra era un tema ritratto in diverse anfore greche. Antenore, che aveva dato ospitalità a Menelao e Odisseo quando loro chiesero il ritorno di Elena, e che li aveva difesi, fu risparmiato insieme alla sua famiglia. Enea prese il padre sulle spalle e fuggì dalla città. Secondo Apollodoro venne risparmiato a causa della pietà dimostrata nei confronti dei nemici. I greci incendiarono poi la città e si divisero il bottino. Cassandra fu data a Agamennone, Andromaca a Neottolemo, Ecuba a Odisseo. Proclo dice che Odisseo gettò dalle mura della città il piccolo Astianatte, Apollodoro narra che fu invece Neottolemo, o per sete di sangue, come dice Quinto Smirneo, o per continuare un ciclo di vendetta che i figli ereditano dai padri (Achille uccise Ettore, Neottolemo uccise Astianatte), tesi che viene accettata da Euripide. Neottolemo sacrificò poi la giovane Polissena sulla tomba di Achille come richiesto dal suo fantasma, o perché voleva il bottino di guerra che gli spettava anche da morto oppure perché lei lo aveva tradito. Etra, la madre di Teseo, era una delle schiave di Elena e venne liberata da Demofonte e Acamante.
Gli dèi erano adirati per la distruzione dei loro templi e i sacrilegi commessi dagli achei. Decisero quindi che molti di loro non sarebbero dovuti tornare a casa salvi. Un temporale li travolse nelle vicinanze di Tenedo. Nauplio, il padre di Palamede, desideroso di vendetta, mise delle luci false in cima al capo Capareo, causando il naufragio di molte navi. Nestore che ha dimostrato la migliore condotta sotto le mura di Troia e non prese parte al saccheggio, fu l’unico eroe ad avere un ritorno rapido e indolore. Quelli del suo esercito giunsero a casa sani e salvi. In seguito Nestore conquistò con i suoi uomini il Metaponto
Aiace Oileo che aveva più di ogni altro causato l’ira degli dèi, non tornò mai più in patria. La sua nave fu ridotta a pezzi da Atena con un fulmine di Zeus. L’equipaggio riuscì a sbarcare su uno scoglio ma Aiace, colmo di prepotenza, gridò di essersi salvato perché gli dèi non avrebbero potuto mai ucciderlo. Dopo aver detto queste parole, Poseidone lo fece cadere dallo scoglio con un colpo di tridente facendolo morire annegato. Venne seppellito da Teti. Teucro, figlio di Telamone e fratello di Aiace il Grande, fu mandato in esilio dal padre per non aver aiutato il fratello a salvarsi dal suicidio. Non gli fu infatti permesso di sbarcare a Salamina e fu costretto a rimanere nella terra vicina di Peirea. Fu comunque assolto dalla responsabilità della morte del fratello ma condannato per non aver riportato in patria il corpo o le armi dell’eroe. Si recò con i propri uomini a Cipro dove fondò una città, chiamandola Salamina, in onore della terra natia. Gli ateniesi crearono in seguito un mito politico secondo il quale il figlio di Teucro affidò il dominio della città ai discendenti di Teseo, dando dunque il primato agli ateniesi. Neottolemo invece, su consiglio di Eleno, divenuto suo schiavo, viaggiò sulla terraferma portando con sé i propri uomini e il proprio bottino. Incontrò Odisseo e insieme a lui seppellì Fenice, maestro di Achille, nella terra dei Ciconi. In seguito conquistarono insieme le terre dell’Epiro. Da Andromaca ebbe un figlio, Molosso, che avrebbe poi ereditato il suo regno. I re dell’Epiro si dicevano infatti discendenti di Achille come fece poi in seguito Alessandro il Grande, la cui madre era di quei luoghi. Il grande condottiero macedone diceva persino di discendere da Ercole. Eleno fondò in Epiro una città, Neottolemo gli diede in moglie la madre Deidamia. Dopo la morte di Peleo, Neottolemo divenne poi re di Ftia. Ebbe però una contesa con Oreste, figlio di Agamennone, sulla figlia di Menelao, Ermione, e venne ucciso a Delfi dove fu seppellito. Infine, dopo la morte di Neottolemo, il regno dell’Epiro passò a Eleno che sposò Andromaca e accolse i rifugiati troiani, fra cui il più importante da ricordare è Enea. Diomede giunse, dopo un temporale, in terra di Licia dove sarebbe stato sacrificato a Ares dal re Lico se la figlia di quest’ultimo, Calliroe, non l’avesse aiutato a fuggire. Sbarcò poi accidentalmente in Attica. Gli ateniesi, pensando fosse un nemico, lo attaccarono. Molti furono uccisi e Demofonte riuscì a derubarlo del Palladio. Tornò finalmente a Argo dove trovò la moglie Egialea nel bel pieno di un adulterio. Disgustato, andò in Etolia e in seguito nell’Italia meridionale dove fondò diverse città. Filottete, a causa di una sedizione, fu cacciato dalla propria terra e costretto a recarsi in Italia, dove fondò diverse città fra cui Crotone. Combatté in Lucania, dove creò un santuario a Apollo Vagabondo, cui sacrificò il proprio arco. Idomeneo, secondo Omero, tornò a Creta sano e salvo. Vi è però un’altra tradizione molto più famosa. Dopo la guerra il re cretese venne colpito da un temporale. Promise a Poseidone di sacrificare il primo essere vivente che avesse visto dopo essere sbarcato se il dio del mare l’avesse salvato insieme al suo equipaggio. Fu salvato ma il primo essere vivente che vide fu suo figlio che, a malincuore, dovette sacrificare. Gli dèi, adirati per un atto così spregevole, mandarono contro Creta un’epidemia. Fu mandato dunque in esilio in Calabria e poi in Asia minore, dove morì. Fra i re minori sopravissuti ben pochi giunsero tranquilli nelle proprie terre.
Secondo l’Odissea, Menelao e la sua flotta giunsero prima a Creta e poi in Egitto dove non poterono ripartire a causa dell’assenza di venti. Solamente cinque delle sue navi sopravvissero. Decise dunque di recarsi da Proteo, divinità marina, per sapere a quale dio sacrificare per avere un buon viaggio di ritorno. Secondo una tradizione post-omerica, non accetta dal poeta dell’Iliade, Elena era in realtà una nuvola e, non appena Menelao giunse in Egitto, scomparve. La ritrovò lì, moglie ancora fedele al marito. Proteo rivelò il modo di poter tornare in patria e gli profetizzò che dopo la morte sarebbe stato premiato con la permanenza nei campi elisi. Menelao ritornò a Sparta con Elena otto anni dopo la fine della guerra di Troia. Agamennone ritornò a Micene portando con sé Cassandra come bottino di guerra. Sua moglie Clitemnestra si era unita a Egisto, cugino di Agamennone, che aveva conquistato la città durante la sua assenza. Probabilmente ancora adirata per il sacrificio di Ifigenia, Clitemnestra progettò con l’amante un modo per togliere di mezzo un uomo ormai troppo scomodo. Cassandra presagì il futuro assassinio e avvertì il padrone che però non volle ascoltarla. Venne così ucciso mentre faceva il bagno o, secondo un’altra versione, in una festa. Cassandra venne uccisa con lui. Oreste, che era stato cacciato dal regno ancora bambino, tornò in patria adolescente e, insieme alla sorella Elettra, cospirò per vendicare la morte del padre. Clitemnestra e Egisto vennero uccisi, Oreste divenne nuovo re di Micene.
I dieci anni che Odissseo trascorse vagabondando prima di poter tornare nell’isola di Itaca sono l’argomento dell’Odissea, il secondo grande poema epico di Omero. Odisseo e i suoi uomini furono spediti in terre lontane e sconosciute per i greci. Lì Odisseo fu protagonista di diverse imprese, come il celebre incontro con il ciclope Polifemo. Ebbe perfino un’udienza nell’aldilà con il celebre indovino Tiresia. Sull’isola del Sole, la Trinacria, gli uomini di Odisseo mangiarono i buoi sacri a Helios. Questo sacrilegio costò la vita ai compagni di Odisseo e la distruzione completa della flotta itachese. Odisseo, l’unico a non cibarsi dei buoi del sole, fu l’unico ad avere salva la vita. A causa di una tempesta naufragò nell’isola di Ogigia dove visse insieme alla ninfa Calipso. Dopo sette anni gli dèi decisero di rimandarlo a casa; su una piccola zattera riuscì a raggiungere la terra di Scheria, popolata dai Feaci, che lo aiutarono a tornare a Itaca. Una volta giunto a Itaca, Odisseo cercò di riprendere possesso della propria casa, vestito da mendicante. Venne riconosciuto dal fedele cane Argo che morì subito dopo. Lì, scoprì che la moglie Penelope gli era rimasta fedele durante i vent’anni di assenza, nonostante il palazzo fosse pieno di pretendenti che, in quel periodo, stavano scialacquando tutti i beni del re. Con l’aiuto di Telemaco, Atena e il porcaro Eumeo, uccise tutti i pretendenti, lasciando soltanto in vita Medone, l’araldo dei proci, benvisto da Penelope, sempre gentile, e il cantore Femio che venne risparmiato per intercessione di Telemaco. Penelope però non lo accolse all’istante, prima volle metterlo alla prova e, non appena lo riconobbe, lo perdonò per la sua assenza. Il giorno dopo i parenti dei pretendenti uccisi vennero da Odisseo per vendicarsi di lui ma Atena riuscì a placare questo massacro.
La Telegonia riprende la storia dell’Odissea dal momento in cui i pretendenti vengono sepolti fino alla morte di Odisseo. È anche stavolta Proclo a fornirci la trama del poema. Due anni dopo il ritorno di Odisseo, Telegono figlio dell’eroe e della maga Circe si recò a Itaca e la depredò. Odisseo morì nel vano tentativo di difendere la propria isola, ucciso proprio dal figlio non riconosciuto. Non appena Telegono scoprì di aver ucciso il padre, prese il suo corpo e lo portò alla madre, in compagnia di Telemaco e Penelope. Circe decise di rendere il figlio e gli ospiti immortali. Dopodiché Telemaco sposò Circe e Penelope Telegono.
Enea riuscì a fuggire da Troia in fiamme, salvando il padre Anchise, il figlio Ascanio, il trombettiere Miseno, il medico Iapige, le statue degli antenati. Sua moglie Creusa morì invece durante il sacco della città. Loro abbandonarono dunque Troia con una piccola flotta, cercando una nuova terra dove poter vivere. Si recarono nei paesi vicini, tutti inospitali. Infine la Sibilla gli predisse di recarsi nella terra dei suoi antenati. Tentarono di stabilirsi prima a Creta, da dove Dardano, primo re di Troia, era partito ma trovarono la terribile pestilenza mandata lì contro Idomeneo. Furono accolti nella colonia di Eleno e Andromaca. Dopo sette anni giunsero a Cartagine, dove Enea ebbe una relazione con la regina Didone. Gli dèi decisero però che il viaggio doveva continuare, Didone per la disperazione si uccise. Enea e i suoi uomini giunsero infine in Italia. Lì la Sibilla Cumana lo fece scendere nell’Ade, mostrando i grandi uomini che sarebbero discesi da lui. Lui chiese l’appoggio del re del luogo, Latino, e la mano della figlia di quest’ultimo Lavinia. Tutto questo provocò una guerra con le varie tribù locali che si concluse con il duello fra Enea e Turno, legittimo pretendente alla mano di Lavinia. Enea vinse il duello e insieme al figlio Ascanio fondò la città di Albalonga. Da Ascanio e Silvio, figlio avuto con Lavinia, discesero Romolo e Remo, mitici fondatori di Roma. I dettagli del viaggio di Enea, il suo amore per Didone, lo scontro con turno sono l’argomento dell’opera di Virgilio, l’Eneide. Ricordiamo però che Cartagine venne fondata molto dopo la guerra di Troia e che Enea non trovò di certo la città meravigliosa del mito ma più che altro alcuni piccoli villaggi.