Lettera aperta
agli aspiranti poeti!

(a cura della redazione arianuova.org)


La poesia è un mito immortale, fortemente radicato nell’immaginario collettivo.

Non ci stupisce, pertanto, di ricevere così di frequente mails di persone (soprattutto giovani, ma non solo giovanissimi) che ci chiedono il permesso di inoltrarci in visione loro composizioni poetiche.
Convinti come siamo della centralità e dell’importanza della poesia, del suo ruolo fondamentale nell’evoluzione individuale e collettiva dell’umanità, abbiamo inizialmente favorito ogni tentativo, fosse pure il più maldestro, con le nostre più entusiastiche e sincere esortazioni a continuare. Poi abbiamo purtroppo dovuto porre un freno, anzitutto per motivi pratici dovuti alla mancanza di tempo nel valutare le composizioni con l’attenzione che meritano. Inoltre, con un po’ di dispiacere, abbiamo notato che quelle che volevano essere parole di stimolo e di incoraggiamento, sono state utilizzate (debitamente mutilate e senza alcuna richiesta di permesso) in siti e copertine di libri come una sorta di nostro riconoscimento ufficiale nei confronti del poeta o della poetessa in questione.

In realtà, la poesia — come ogni vera arte — richiede doti particolarissime e oggi notiamo troppa fretta nel voler pubblicare e, quel che è peggio, troppa premura nello scrivere e nel precipitarsi a porre sul proprio capo l’alloro del poeta!

Ecco dunque che è nata l’esigenza di questa lettera aperta a tutti gli aspiranti poeti.


«Per comporre poesia, occorrono tre elementi. In primo luogo,
sincerità emotiva e afflato poetico [...]. Secondariamente,
è necessaria una padronanza del linguaggio e una facoltà ritmica
perfezionata da una conoscenza della tecnica dell'espressione
poetico-ritmica. [...] Infine, deve essere presente il potere della
ispirazione, l'energia creativa che determina l'intera differenza
tra il poeta e il buon versificatore.»
SRI AUROBINDO (6.6.1932)

Siamo convinti che chiunque possa e debba tentare di scrivere poesia, ma dovrebbe pure possedere il buon senso di tenere nel proprio cassetto quanto produce, a meno di non avere una qualche certezza delle proprie doti di poeta.

E che cosa occorre per essere davvero un poeta?

Due sono le ali che permettono il volo poetico: la vocazione e la tecnica.

Poeta nascitur non fit: “poeti si nasce, non si diventa”. Generalmente si scopre la propria vocazione alla poesia in tenera età, manifestandosi come un bisogno insopprimibile a poetare e con la consapevolezza del possedere, vero e proprio dono-di-natura, una facoltà (più o meno latente) spontaneamente e felicemente tesa verso una particolarissima forma di intelligenza — altra e diversa dall’intelligenza analitica del pensatore, del letterato, del filosofo — che Sri Aurobindo chiama “intelligenza poetica” (poetic intelligence). Senza questa autentica vocazione (termine ormai perlopiù in disuso, nei tempi superficiali e frettolosi in cui viviamo), senza questo dono, non si può sperare di creare qualcosa che possa anche solo lontanamente appartenere al dominio delle Muse.
Sulla vocazione non c’è molto da aggiungere: è un dono che si possiede oppure no. Non è qualcosa che ci si può fabbricare con lo studio, fosse pure il più caparbio. Se la si possiede, allora la si può raffinare, liberandola da ogni intralcio. Per questo motivo i primi giovanili tentativi di scrittura poetica, anche da parte dei grandissimi poeti, sono per lo più rudimentali e, a parte qualche eccezione, mostrano solo un genio latente: l’ispirazione è presente, ma manca quasi sempre la capacità di riceverla correttamente e senza deformazioni.

La tecnica comporta invece la più perfetta padronanza possibile del bagaglio di conoscenze necessario all’arte poetica.
Se si possiede tale bagaglio ma non il dono del poetare, si può tutt'al più diventare dei semplici ‘versificatori’, non dei veri poeti. La storia ne ha conosciuti alcuni particolarmente abili, che nel loro tempo si sono distinti, ma nessuno di essi è destinato a perdurare nella memoria dell’umanità.
Per contro, possedere la vocazione e non curarsi di approfondire il bagaglio tecnico, significa essere fortemente menomati nel proprio volo e non riuscire a produrre nulla di realmente magnifico. E ciò è vero per tutte le arti; se un Virgilio, un Mozart, un Bernini, un Caravaggio non avessero dedicato lunghi anni all’apprendimento della tecnica della propria rispettiva arte e se, una volta appresa, non si fossero esercitati quotidianamente per diverse ore in un continuo e inesauribile approfondimento, non avrebbero potuto produrre i capolavori che hanno lasciato all’umanità, pur essendo per natura dotati (e in così grande misura!) del genio artistico. A titolo di esempio, si dice che Virgilio componesse una manciata di versi al giorno e che restasse occupato e profondamente immerso per tutto il resto della giornata nel cercare di perfezionarli, per poi decidere, il giorno dopo, se tenerli o cestinarli.
La tecnica, al contrario dell’aspirazione, va appresa e ben padroneggiata con cura maniacale, fino a farla diventare parte integrante di sé, tutt’una con il nostro stesso sangue.
Il primo elemento, in questo senso, riguarda la buona conoscenza della lingua — e, nel nostro caso, della lingua italiana. Ciò può sembrare una ovvietà, ma troppo spesso riceviamo manoscritti di sedicenti poeti che sono fitti di errori grammaticali più volte ripetuti (e quindi non riconducibili a semplici refusi) mostranti una insufficiente conoscenza dell’italiano. Padroneggiare bene la lingua italiana (pochissimi italiani possono vantare una simile conoscenza!) è la base indispensabile. Se poi, in aggiunta, si conoscono anche altre lingue, questo non può che aumentare il proprio bagaglio tecnico. Per esempio, può rivelarsi utilissimo (non indispensabile, certo) conoscere anche solo in parte le tre principali lingue da cui la nostra lingua deriva: il latino, il greco, il sanscrito. Inoltre, avendo la poesia italiana preso il suo avvio da quella francese, anche la conoscenza di questa lingua può essere d’aiuto. Così come la conoscenza di qualunque altra lingua, perché tende a rendere più duttile e ricco il nostro tessuto cerebrale.
Viene quindi, come naturale conseguenza, la conoscenza dei grandi capolavori immortali della poesia del passato. Anzitutto quelli scritti nella nostra lingua, quindi tutti i più grandi capolavori della poesia mondiale, per universalizzare il più possibile l’ampiezza del nostro bagaglio artistico e culturale. Anche qui, riscontriamo spesso, fra i sedicenti poeti, una ignoranza spaventosa e incomprensibile, unitamente alla sciocca presunzione che i grandi poeti della storia, appartenendo al passato, sono antiquati e superati. Antiquati e superati possono certamente essere le loro concezioni mentali (filosofiche o altro) ma questo, in fin dei conti, che cosa ha a che fare con la poesia? Non di rado ci sentiamo ripetere: “ma perché dovrei conoscere la Divina Commedia, il cui apparato teologico appartiene al Medioevo più retrogrado e che pullula di dogmi inaccettabili?” — dimenticandosi che la poesia ha un valore anzitutto musicale e che i grandi poeti del passato ci hanno lasciato un patrimonio di vibrante bellezza che, proprio se lo si vuole superare per produrre nuove alchimie sonore in direzione della “Poesia Futura” auspicata da Sri Aurobindo, occorre conoscere e apprezzare.
Ma più di ogni altra cosa occorre disporre di una perfetta conoscenza della metrica, vale a dire delle possibilità espressive — che attengono al ritmo, alla musicalità e a tutti i possibili espedienti utili a manipolare la lingua di cui disponiamo per avvicinarla il più possibile al magico linguaggio divino. Padroneggiare la metrica ci consente di entrare nell’anima del ritmo — necessità assolutamente fondamentale per un poeta. E per arrivare a padroneggiare la metrica occorre un lavoro lungo e meticoloso, costituito di anni di studio e di approfondimento.
Molto utile, in tale direzione, si rivela lo studio della musica, possibilmente imparando a suonare uno strumento o a cantare. Come puro lo studio della recitazione, dell’ortofonia e dei moduli espressivi.

Sia chiaro: noi non vogliamo dissuadere nessuno dallo scrivere poesia. Tutti, almeno una volta nella loro vita, dovrebbero provarci. Ma solo i veri poeti dovrebbero pubblicare; gli altri dovrebbero avere il buon senso e l’accortezza di tenere per sé i propri esperimenti. Una delle cose più sconvolgenti in questo ambito, infatti, riguarda il fatto che nel mondo contemporaneo esistano più “poeti” (vale a dire, autori che pubblicano e diffondono in qualche modo le loro presunte composizioni poetiche) che lettori di poesia!!! Questa è la prova più evidente che la stragrande maggioranza di chi pubblica sedicente poesia, non solo non è un poeta, ma non è nemmeno un sincero amante di poesia: è talmente infatuato di sé da cercare il mezzo più rapido per poter vantare doti di scrittore e illudersi in tal modo di poter “emergere dalla massa”. E che cosa c’è di più sbrigativo che raffazzonare frasi che si interrompono all’improvviso e alle quali poter dare il nome di “versi poetici”?


 P.S.: tra i vari scambi epistolari intercorsi in questi anni con aspiranti-poeti, desideriamo riportare la lettera di uno di essi (preservandone l'anonimato, per rispetto), particolarmente toccante, eliminando la parte  troppo personale —

«Gentilissima Gaia, la ringrazio per la sua risposta puntuale ed esauriente. Condivido la sua riflessione circa la schizofrenica frettolosità  delle nostre esistenze che spesso tradiscono un mal di vivere malcelato ed un vuoto esistenziale difficile da rendere manifesto e quindi, perché no, definibile e curabile. Probabilmente anzi sicuramente anch'io faccio parte di questa categoria di individui che molte volte vanno bussando alla cieca sulle porte delle Case Editrici, convinti che la pubblicazione di un libro possa essere la Panacea contro tutti i mali moderni, dalla mancanza di autostima alla volontà di sentirsi diversi, addirittura artisti, letterati e pensatori. Quindi non mi sento di accusare la "categoria" di cui temo di far parte, piuttosto le chiedo scusa a nome dei tanti che cercano la redenzione o la fatidica svolta della propria vita attraverso la spasmodica e molte volte disperata ricerca dell'Editore che potrebbe trovare in questi sedicenti poeti qualcosa di buono. [...] Voglia gradire i miei più cordiali saluti.»