La violenza dei fondamentalismi

di Maria Di Rienzo


Il 19 aprile 2007, nelle quattro maggiori città pakistane (Lahore, Islamabad, Karachi e Peshawar) migliaia di persone hanno protestato contro i fondamentalismi, in particolare contro le azioni degli studenti di due scuole religiose musulmane, la Jamia Hafsa e la Jamia Faridia, che fanno capo alla medesima organizzazione nella capitale. I dimostranti hanno denunciato la progressiva “talibanizzazione” del paese.
Che sta succedendo? Per esempio succede che alcune scuole musulmane stanno incoraggiando i loro giovani a impegnarsi nel lavoro di conversione. Il metodo che hanno escogitato è molto semplice: si rapiscono ragazze non musulmane e le si violentano (15 casi denunciati nel 2006 solo nel distretto di Sindh, ma vedremo da quanto segue che è probabile il numero sia molto maggiore). Se le famiglie protestano o sporgono denuncia, i giovani devoti producono un certificato rilasciato dalla loro scuola ove si attesta che le ragazze in questione si sono convertite all’Islam e sono sposate con loro.
La maggior parte delle fanciulle sono minorenni e le leggi del Pakistan fissano a 18 anni l’età legale per il matrimonio, ma i tribunali incredibilmente accettano i certificati e nessun violentatore viene condannato.
È ad esempio il caso di Deepa, diciassettenne, che manca da casa dal 31 dicembre 2006 dopo essersi recata a ripetizione da uno di questi farabutti che dava lezioni private ed è anche insegnante di una ‘madrasa’ (scuola religiosa). La famiglia cerca disperatamente di mettersi in contatto con lei, ma il suo rapitore dice che l’ha convertita all’Islam e sposata, mentre grazie alle parentele che costui ha con uomini influenti la polizia consiglia i parenti di non sporgere denuncia: così troveremo Deepa più facilmente, concludono, ma a cinque mesi di distanza non se ne sa ancora nulla.
Pooja di anni ne aveva quindici, quando fu rapita e brutalmente stuprata nel luglio 2006, come gli esami medici hanno confermato. Per meglio proteggerla, suppongo, le autorità l’hanno trasferita dall’ospedale alla prigione, da cui è stata rilasciata il 19 dicembre e consegnata ai suoi aguzzini, i quali avevano prodotto in tribunale il famoso certificato per cui Pooja sarebbe convertita all’Islam eccetera.
Organizzate dal Waf (‘Forum d’azione delle donne’), le marce hanno portato in strada sindacati, studenti, gruppi della società civile, avvocati, giornalisti, attivisti per i diritti umani, politici. A Lahore ha parlato Asma Jehangir, presidente della Commissione pakistana per i diritti umani, denunciando il sostegno dell’esercito ai mullah: «Non ci potrà essere democrazia nel nostro paese sino a che i mullah si arrogheranno il diritto di emanare decreti per sfruttare il popolo in nome dell’Islam». È intervenuto anche il presidente della regione del Punjab, Shah Mahmood Qureshi, che ha ammesso la crisi.
La maggior parte dei dimostranti a Islamabad erano donne. I loro cartelli recitavano: «Dove sono le leggi dello stato?», «No agli estremismi religiosi. Sì alla vita e alla musica», «Riaprite la biblioteca per i bambini». Shirin Mazari, una delle organizzatrici, ha spiegato ai giornalisti che «Siamo cittadini preoccupati, che hanno guardato con rabbia e frustrazione al terrorismo inflitto loro da una minoranza estremista della società. Siamo sconcertati dall’incapacità o dalla riluttanza dello Stato di contrastare le violazioni di legge commesse dagli studenti delle scuole Jamia Hafsa e Jamia Fareedia. Si tratta praticamente di un governo alternativo».
A Karachi molte le donne, assieme a sindacati, ong, universitari, artisti. Il loro canto, un riferimento alla poesia pakistana, diceva «Hum dekhain gay!» (“La vedremo!”). «È difficile ormai trovare una singola donna che non sia stata costretta a fronteggiare l’estremismo religioso», ha raccontato l’attivista Naib Nazim Nasreen Jalil, «Qualche anno fa ho raggiunto Karachi da Islamabad in aereo. All’aeroporto sono stata aggredita da un gruppo di estremisti religiosi della formazione Jamaat-e-Islami. Mi hanno circondata come cacciatori addosso a una preda, e hanno preso a colpirmi e a spingermi. Se non fossero intervenute le persone che erano all'aeroporto a ricevermi, non so come sarebbe finita».
«Per qualcosa oggi però li ringraziamo», ha scherzato la dottoressa Aqila, membro della Commissione pakistana sull’energia e della Fondazione Aurat, «Ci hanno fatto ritrovare tutte le amiche qui».
L’estremismo religioso fa capolino ovunque, hanno testimoniato le dimostranti. Le donne vengono insultate e assalite per strada se non indossano il “dupatta” da parte di zelanti devoti che fingono di pregare in parchi e piazze, ma il cui scopo e' sorvegliare gli spazi pubblici. Un tempo i genitori erano lieti di chiamare in casa insegnanti religiosi per i loro figli, ma oggi, stanti i numerosissimi casi di violenze e stupri perpetrati da tali insegnanti, la pratica sta svanendo.
La sopravvissuta a uno di questi casi, Kainat Soomro, che ha sofferto uno stupro di gruppo, era pure alla manifestazione: «Ancora dopo la denuncia sono costretta a subire minacce e insulti. Non me ne importa. Non cederò, perché i colpevoli devono essere portati in tribunale».
A Peshawar sono scese in piazza anche le donne delle tribù, e hanno denunciato le minacce, le violenze, e la presenza insopportabile degli “studenti” religiosi armati di bastone: «Nessuna religione al mondo permette ai suoi fedeli di sostituire il bastone alla fede», ha detto la dottoressa Begum Jan, presidente dell’Associazione per il welfare delle donne tribali.
Da Lahore a Peshawar un coro: queste non sono le nostre tradizioni, per cortesia gli occidentali smettano di avallare questa falsità.
La stessa cosa dicono le donne irachene dell’Ofwi (Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq) e di “Voce irachena per la pace”. Aseel Albanna, fondatrice di quest'ultima ong, attesta che «Il conflitto settario è un fenomeno del tutto nuovo per il nostro paese. Precedentemente all’invasione e alla decisione statunitense di assegnare seggi in parlamento sulla base dell’appartenenza religiosa non ci siamo mai identificati così strettamente come sunniti e sciiti. La decisione ha trasformato una questione spirituale e privata in una faccenda di concreto potere politico».
«Cosa dovremmo fare, tagliare i nostri figli in due?», aggiunge Namaa Alward, «I matrimoni misti erano la regola. La mia famiglia include sunniti, sciiti, curdi e persino ebrei. Io sono il risultato di queste unioni avvenute nei secoli in quel punto d’incontro che l’Iraq è stato». Namaa Alward è un’attrice famosa, che ha lasciato il suo paese negli anni ’80 dopo essere stata arrestata in diverse occasioni quale oppositrice del regime di Saddam Hussein. È ritornata per la prima volta come “scudo umano” nel 2003. Oggi sua madre, che vive a Baghdad, la prega di restare all’estero. Per le donne è troppo pericoloso, dice. La “caccia alle streghe” comprende artiste, docenti, professioniste, femministe, lesbiche, e si conclude troppo spesso con esecuzioni extragiudiziali. Namaa Alward ha perso in questo modo una cugina e due nipoti. Zainab Salbi, fondatrice di “Women for Women International”, dice che non riesce più a tenere il conto: «Le donne vengono uccise semplicemente perché hanno una professione, o perché note come attiviste per i diritti umani».
Yanar Mohammed dell’Ofwi aggiunge che il controllo delle donne è diventato la bandiera dell’Islam politico e fondamentalista. Oggi a Bassora indossare pantaloni o uscire senza sciarpa in testa per una donna è punibile con la morte: «Gli sciiti e i sunniti competono su quanto e come le ‘loro’ donne devono coprirsi. E questo non ha niente a che fare con le tradizioni irachene o la moralità». «Se lo chiedete a me», aggiunge con una battuta Nawaa Alward, «preferisco che si vendano minigonne alle donne piuttosto che armi agli uomini».
«Sottomettere la Costituzione alla religione ha peggiorato le cose», dice ancora Aseel Albanna, «Per le donne ha significato che qualsiasi cosa vogliano fare ora devono chiedere il permesso a un uomo della famiglia. Questo in un paese in cui prima della guerra il 60% degli studenti universitari erano femmine». Attualmente, invece, le ragazze vengono minacciate e forzate ad abbandonare gli studi. Le due figlie della dottoressa Entisar Mohammad Ariabi, una delle donne che l’anno scorso si recò negli Usa per unirsi all’azione di ‘Code Pink’ che chiedeva il ritiro delle truppe, hanno lasciato la facoltà di medicina dopo aver ricevuto ripetute minacce di morte. Ma la cosa attinge a profondità ben maggiori: un quinto delle bambine in età scolare, nel 2004, non è stata iscritta o re-iscritta alle elementari. Nel 2006 si è toccato il picco più basso di bambine e ragazze nelle scuole, a Baghdad e nelle regioni centrali e del sud dell’Iraq. (L’Unicef redige rapporti dettagliati al proposito da anni, sfortunatamente in Italia non vengono letti). Le scuole dell’area menzionata sono controllate dalle milizie settarie: pur di evitare che le bambine vengano aggredite, rapite, stuprate o sfigurate con l’acido, i loro genitori le tengono comprensibilmente a casa. Non hanno memoria di “tradizioni” simili, considerano il tutto un orrore in più da aggiungere agli orrori quotidiani dell’occupazione straniera.

In Malesia, negli ultimi quarant’anni, musulmani, cristiani, hindu e sikh hanno vissuto senza grosse difficoltà fianco a fianco. Ultimamente le cose sono molto peggiorate: grazie all’introduzione dei tribunali religiosi islamici e di leggi che proibiscono la conversione o l’abbandono della religione a chi alla nascita venga registrato come musulmano (il contrario, invece, va benone). «Un piccolo ed esclusivo gruppo di persone, dice Zainah Anwar, si è arrogato il diritto di interpretare i testi, e di codificarli in maniera tale che spesso sono completamente isolati dal contesto socio-culturale in cui si diede la rivelazione. Isolano inoltre le classiche opinioni giuridiche dal contesto socio-culturale in cui si davano le vite dei giuristi fondatori dell’Islam, e isolano i testi dal contesto della società contemporanea in cui viviamo oggi». Zainah Anwar è la direttrice esecutiva di “Sorelle nell’Islam”, un gruppo di professioniste musulmane impegnato a promuovere i diritti delle donne, ed è membro della Commissione per i diritti umani della Malesia. Revathi Masoosai è nata 29 anni fa a Kuala Lumpur, da genitori musulmani. Allevata dalla propria nonna, hindu, ha scelto quest’ultima fede, nel 2001 ha cambiato il nome musulmano che le era stato dato e tre anni dopo si è sposata con un uomo hindu, Suresh Veerappan. Il matrimonio non viene considerato valido dalle autorità, poiché manca la conversione all’Islam del marito. I due hanno una bimba. A questo punto che si fa? Semplice, si spedisce la giovane donna in galera e subito dopo in un “centro di riabilitazione” dove deve pentirsi della sua trasgressione religiosa; si sottrae al marito la custodia della figlia di 15 mesi e la si affida alla nonna musulmana. Quando Revathi Masoosai sarà sufficientemente “riabilitata” potrà riavere la figlia “se ne farà richiesta”, dichiarano le autorità musulmane, ovvero il Dipartimento religioso islamico.
Il 5 aprile 2007 ci sono state proteste a Kuala Lumpur per questo e altri casi, con l’appoggio del Partito d’azione democratica (all’opposizione in Parlamento). I dimostranti hanno detto che è «inumano separare una bimba dalla madre» e che «questo non ha nulla a che fare con la cultura del nostro paese». Chi li ha visti, della stampa occidentale? Pochi. Per quanto riguarda l’Italia, nessuno. Io sto scrivendo: qualcuno comincia ad ascoltare?

Negli stessi giorni in cui approda sui nostri giornali la protesta degli studenti iraniani a cui ora la legge vieta, in nome di dio sa che, di indossare calzoncini corti, 278 donne vengono arrestate dalla polizia e vanno in galera perché «non indossano vesti adeguate». Ad altre 3.548 donne vengono dati «avvisi e guida islamica» e minacce di arresto futuro per lo stesso motivo.
Tutto questo passa sotto silenzio. È il 23 aprile 2007 e si tratta del giro di vite più pesante al proposito negli ultimi due anni. Quattro giorni prima, Fariba Davoudi Mohajer e Sussan Tahmasebi, attiviste per i diritti umani impegnate nella campagna “Un milione di firme” che chiede l’abolizione delle leggi iraniane discriminatorie nei confronti delle donne, vengono condannate rispettivamente a un anno e a sei mesi di detenzione perché raccogliere firme “minaccia la sicurezza nazionale”.
Donne e uomini stanno firmando a migliaia la petizione. Alle attiviste dichiarano che la condizione delle donne come si presenta oggi in Iran è qualcosa di terribile e del tutto «nuovo e sconvolgente» nella loro esperienza. Non ha a che fare con la tradizione, la cultura, gli usi e costumi come loro li conoscono. Ma alle nostre anime belle basta una dichiarazione contro gli Usa del presidente "nucleare" iraniano per andare in brodo di giuggiole: ho persino letto che, essendo un buon musulmano, costui non farà certo la bomba atomica! Sta solo aiutando la sua povera gente a competere nello spietato mercato globale delle potenze nucleari, come se a chi muore di fame in Iran (300.000 mendicanti donne, ad esempio) potesse fregargliene qualcosa, e per quanto riguarda il resto «quelle sono le loro tradizioni ed è arrogante che gli occidentali diano giudizi ecc. ecc.». Peccato che i non occidentali ve lo stiano urlando in una gran varietà di lingue che questo è un falso. Peccato che in maggioranza abbiano la lettera “F” sui documenti d’identità, altrimenti forse otterrebbero un briciolo d’ascolto.

Quando l’aderenza all'ortodossia religiosa si trasforma in misura di legittimazione politica, un governo democratico è seriamente a rischio, ovunque. I politici corrono a scavalcarsi per dimostrare il loro impegno religioso controllando le donne e imponendo severe punizioni, violando grossolanamente i diritti delle donne e i diritti umani in genere. Sta accadendo dappertutto, e sta accadendo soprattutto in rapporto alle tre maggiori religioni monoteistiche. Negli USA, patria di democrazia e opportunità, un’insegnante di francese è stata licenziata da una scuola cattolica perché lei e il marito hanno usato la fecondazione in vitro per avere figli. Come ha annunciato di essere incinta delle due gemelle, Kelly Romenesko ha dovuto fare i bagagli: si sta battendo perché questa violazione flagrante ai suoi diritti di lavoratrice venga annullata.
Una donna ebrea ortodossa è stata presa a calci e sputi su un autobus, a Gerusalemme, perché, come la compianta Rosa Parks, ha rifiutato l’apartheid dei sedili. Miriam Shear, questo è il nome della donna, stava usando un mezzo della compagnia nazionale degli autobus (e non uno dei mezzi in cui si opera la segregazione per sesso e che pure esistono e vengono detti “mehadrin”), e non ha ovviamente obbedito all’ordine del primo sconosciuto che le ha detto di andarsi a sedere in fondo come devono fare le donne.
In tre l’hanno rovesciata sul pavimento dell’autobus per poterla prendere meglio a calci. L’episodio in sé, e il fatto che la comunità femminile ortodossa sia praticamente insorta nei giorni seguenti, volantinando, picchettando le fermate, portando il caso degli autobus segregazionisti in tribunale affinché si discuta della loro liceità, non sono stati riportati da nessuno dei media italiani.

Le forze estremiste politico-religiose stanno aumentando il loro controllo sulle vite delle donne, intersecando la loro agenda politica a etnie, nazionalismi, tradizioni e culture per giustificare definizioni rigide dei ruoli di genere, negazione di diritti umani (in special modo quelli correlati alla salute riproduttiva e all’istruzione), imposizione di codici d’abbigliamento, restrizioni sui diritti ereditari o di proprietà. Queste forze, ovunque si collochino sullo spettro socio-politico, si oppongono diametralmente ai diritti umani, e in particolare al diritto per le persone di fare scelte, di dissentire, di formulare alternative. Il loro impatto sta interessando anche comunità e paesi che hanno goduto sino ad ora di una lunga tradizione di laicità, e numerosi governi stanno cedendo alle pressioni legiferando in maniera contraria alle pari opportunità o alla cornice dei diritti umani. Le politiche fondamentaliste, estremiste e di esclusione emergono anche per riempire dei vuoti ove la democrazia vacilla e l’insicurezza economica cresce. Ma invece di identificare le radici del problema e affrontarle, ogni decisione viene tradotta nella politica del noi o loro. Persino quando non sono esplicite, le agende di questo tipo influenzano pratiche, leggi, politiche in modo assai distruttivo rispetto ai diritti umani, e in particolare ai diritti umani delle donne a cui, è bene non dimenticarlo, il benessere e la salute dei bambini sono strettamente legati. Milioni di bimbe e bimbi in tutto il mondo continueranno a soffrire per mancanza di cibo, cure e istruzione sino a che le loro madri saranno costrette a vivere in condizioni di abuso nelle loro case e a subire discriminazioni sul posto di lavoro.
Esempio: in Sri Lanka, le donne con bimbi d’età inferiore ai cinque anni non possono più accettare impieghi fuori dal paese, una legge voluta all’inizio del 2007 dai fondamentalisti, a beneficio dell’unità familiare. Poiché lavoro nel paese non ce n’è, e guerriglia e disastri ambientali lo hanno prostrato non poco; e poiché il lavoro domestico all’estero era una delle pochissime opportunità economiche alla portata delle donne; e poiché tali donne mantenevano con questo lavoro famiglie estese: quanto durerà l’unità familiare senza niente da mettere nel piatto? E quanto meglio staranno, da poveri e affamati, i bambini con meno di cinque anni? Volete mettere, però, potranno guardare tutto il giorno la mamma che piange.
Ma che le situazioni “lontane” non vengano viste e discusse dai/sui media se non tramite occhiali ideologici o quando fa comodo è forse la cosa meno sconvolgente. Quello che mi lascia basita è che nessuno stia riconoscendo i segnali d’allarme del fondamentalismo nel nostro paese. Le maggiori organizzazioni che lottano per i diritti umani ne indicano sostanzialmente cinque:
1. L’introduzione (o la re-introduzione) di leggi penali tese a normare il comportamento degli individui costringendolo ad uniformarsi a un modello unico in nome della "moralità", della "purezza culturale" o della "religione": codici di abbigliamento, criminalizzazione dell’omosessualità, separazione degli spazi fra uomini e donne e incremento del dislivello nelle opportunità, repressione di gruppi e organizzazioni che lavorano per il cambiamento sociale;
2. Campagne mediatiche di denuncia e discredito, con insulti e accuse pesanti, dirette alle persone che non intendono (e a volte neppure possono per condizioni oggettive) uniformarsi al modello unico imposto per legge o che si intende imporre quale legge de facto; 
3. Il linguaggio attorno alle istanze di diritto umano viene infestato di manipolazioni: banalizzazione, revisionismi storici, rovesciamento di responsabilità dall’aggressore alla vittima, appelli al “multiculturalismo” e al “rispetto” di tradizioni diverse per giustificare ogni tipo di violazioni dei diritti umani; 
4. L’incremento di proibizioni e censure: divieto di manifestare e/o di riunirsi, chiusura di siti web e giornali, allontanamento dalla scuola di insegnanti considerati “immorali” in base ai dettami della “purezza” culturale o religiosa;
5. L’aumento della violenza nella sfera privata: violenza domestica, “delitti d’onore”, “caccia al diverso”, bullismo nelle scuole, e il silenzio o addirittura l’incoraggiamento (tacito o esplicito) da centri di potere (governi, chiese, forze dell’ordine) per queste forme di aggressione.
Ripercorrete le vicende dei Dico, del “Family Day”, le dichiarazioni relative dei vari politici, fra cui quella della Ministra Bindi: «gli omosessuali non sono legittimati a partecipare alle audizioni per la Famiglia» (la maiuscola è sua, e mi si permetta di chiedere: chi legittima questi untermenschen quando pagano le tasse, vanno a lavorare, stipulano un contratto, eccetera?); ripensate all’omicidio della ragazza pakistana o al suicidio del ragazzo di Torino, alle uscite recenti e non di vari prelati - imam - rabbini... Riconoscete nulla? Pensate che ci sia qualcosa da fare? O aspettiamo che un altro po’ di vite vengano devastate dalla sofferenza e dalla morte? Fino a ieri, essere laica per me era un dato di fatto, e che lo stato italiano fosse uno stato laico un’ovvietà. Oggi sull’ultimo punto sono insicura. Sono spaventata, e decisa a oppormi a questo stato di cose prima che peggiori. Mi piacerebbe avere delle compagne e dei compagni di strada.

Maggio 2007